Un paradosso che l’epidemia da Covid-19 rischia di acuire

Le città italiane strette tra nuovi poveri e spreco alimentare

Un nuovo studio mostra che serve una gestione integrata, cioè che guardi veramente al cibo dal campo alla tavola, fino alla gestione del rifiuto

[16 Ottobre 2020]

Mentre a causa della pandemia si stima che in Italia oltre 2 milioni di famiglie scivoleranno nella povertà assoluta – segnando un +50% sul 2019 –, la Fao stima che a livello globale più di un terzo del cibo sia perso o sprecato lungo l’intera catena di produzione del cibo. Si tratta di un problema che si concentra nelle città, dove ormai vive oltre la metà della popolazione mondiale e dove si consuma dal 70 all’80% di tutte le risorse alimentari prodotte. Ecco perché il nuovo studio Urban food waste: a framework to analyse policies and initiatives parte da qui, prendendo in esame 40 città europee in 16 diversi Paesi, per elaborare una nuova metodologia in grado di valutare le politiche e le iniziative delle città per la lotta allo spreco alimentare.

«Le città possono andare a incidere direttamente su tanti settori o elementi del sistema alimentare urbano – spiega la co-autrice Marta Antonelli, senior scientist presso la Fondazione Cmcc e direttore ricerca di Fondazione Barilla –, che poi determinano le dimensioni della sicurezza alimentare per i cittadini. Come? Attraverso l’azione sui mercati rionali, le mense scolastiche, le mense caritatevoli, gli incentivi per ridurre gli sprechi, etc».

Il problema, come accennato, si concentra nelle città ma i suoi riflessi sono ormai globali. Secondo le stime Fao lo spreco alimentare rappresenta fino al 10% delle emissioni globali di gas serra, e ha un’impronta idrica pari a cinque volte il volume del lago di Garda. Solo in Europa, con 88 milioni di tonnellate di cibo sprecato ogni anni (pari a 173 kg a testa), si stima inoltre che il 15% degli impatti totali sull’ambiente della catena di produzione del cibo siano attribuibili proprio agli sprechi alimentari.

In questo contesto l’Italia è comunque riuscita a fare dei passi avanti, negli ultimi anni. Secondo l’ultima indagine pubblicata – all’inizio di quest’anno – dall’Osservatorio waste watcher, c’è stata una riduzione del 25% nello spreco alimentare. Ma a livello nazionale continuano a finire nel cestino 65kg di cibo pro capite l’anno, con perdite economiche pari a 6,5 miliardi di euro.

Con la pandemia, paradossalmente la situazione potrebbe però tornare a peggiorare. Come dettaglia Antonelli in riferimento ai risultati emersi nello studio, «a fronte di una perfetta edibilità del cibo, si osservano spesso perdite (nelle prime fasi della filiera alimentare, nel tragitto tra il campo e la vendita al dettaglio), oppure sprechi (nelle ultime, a livello di vendita al dettaglio e di consumo), con significativi impatti a livello economico, sociale e ambientale. Anche senza considerare l’emergenza Covid-19, che ha ulteriormente aggravato la situazione, ogni anno il 14% circa dei prodotti alimentari va perso in tutto il mondo prima di raggiungere il mercato; i motivi sono molteplici, e spaziano da problemi alle infrastrutture, vizi di manipolazione, inadeguatezza delle modalità di trasporto, condizioni meteorologiche estreme, fino a problemi nello stoccaggio e conservazione dei prodotti, che colpiscono soprattutto i cibi più deperibili, come frutta e verdura. Per quanto riguarda invece lo spreco ‘a valle’, imputabile ai consumatori o agli addetti al servizio della ristorazione, le ragioni sono soprattutto di tipo comportamentale».

Cosa possono fare le città per contribuire a migliorare? L’analisi cui ha collaborato il Cmcc mette in luce anche come molte città (in Italia, Bari, Bologna, Milano, Torino, Genova, Venezia e Cremona, con iniziative sia pubbliche che private) stiano utilizzando la lotta allo spreco per andare ad alleviare la povertà alimentare e l’esclusione sociale delle fasce più vulnerabili della popolazione, per esempio attraverso sistemi di donazione delle eccedenze di cibo, o la creazione di nuove opportunità di lavoro nell’economia circolare.

Adesso il primo passo sta nel riuscire a fare rete. «Se andassimo a vedere le azioni che i diversi comuni italiani hanno intrapreso sul sistema alimentare, vedremmo – osserva Antonelli – che le azioni sono molteplici; quello che è ancora raro, è avere una gestione integrata, cioè che guardi veramente al cibo dal campo alla tavola, fino alla gestione del rifiuto, in maniera integrata, multi-settoriale, e di conseguenza anche multi-attoriale».