L’Italia non è autosufficiente nella gestione rifiuti. Utilitalia: «Paese esposto a crisi periodiche»

Brandolini: «L’emergenza coronavirus conferma la necessità di pianificare e realizzare un sistema infrastrutturale nazionale»

[27 Maggio 2020]

Il rapporto Ispra pubblicato ieri mostra un’amara verità: mentre in Italia la produzione di rifiuti speciali continua a crescere, al contrario si riduce sul territorio la capacità di gestirla. Neanche la crisi legata alla pandemia in corso modifica questo scenario. Lo stop subito quest’anno dalle attività produttive e dai consumi porterà con tutta probabilità a una (temporaneamente) minore produzione di scarti, ma l’emergenza non alleggerisce e semmai accentua l’emergenza di un sistema ingessato da carenze di infrastrutture, eccessiva burocrazia, decisioni politiche spesso rinviate. Il blocco di settori centrali per l’economia circolare (come plastica, carta, vetro, metalli) e la sospensione delle esportazioni di rifiuti e materie prime seconde rappresentano colli di bottiglia che è necessario affrontare, ma in modo strutturale.

Lo spiega bene Filippo Brandolini, vicepresidente di Utilitalia – la Federazione che riunisce le aziende dei servizi pubblici operanti nei settori  acqua, ambiente, elettricità e gas – intervenendo proprio alla presentazione del rapporto Ispra sui rifiuti speciali: «L’emergenza coronavirus ci ha confermato che se non si pianifica e si realizza un sistema infrastrutturale nazionale che tenda all’autosufficienza nella gestione dei rifiuti, il nostro Paese resta esposto a periodiche situazioni di crisi, che possono essere dovute a cause molto differenti ma con effetti comunque negativi».

Questo naturalmente non significa ignorare un Italia con molte eccellenze. Il recupero di materia ad esempio è sempre la forma di gestione predominante per i rifiuti speciali assorbendone il 67,7% del totale (103,3 milioni di tonnellate); le operazioni di smaltimento rappresentano circa il 19,3% (30,7 milioni di tonnellate, di cui 11,9 milioni di tonnellate in discarica), mentre appaiono residuali il coincenerimento (1,3%), l’incenerimento (0,8%).

Ma serve ambizione per migliorare ancora. Brandolini sottolinea al proposito che «i rifiuti speciali smaltiti in discarica sono ancora tanti. Se analizziamo non le percentuali ma i valori assoluti, parliamo di 11,8 milioni di tonnellate, un dato peraltro stabile da anni».

Per progredire lungo la strada dell’economia circolare è necessaria una politica industriale coerente, a partire da una normativa di settore più snella e funzionale all’obiettivo. Da questo punto di vista importanti progressi potranno essere raggiunti per i rifiuti dalle attività di costruzione e demolizione, che ad oggi sono «la tipologia più consistente che viene recuperata quasi totalmente: un ulteriore sforzo, agevolato dalla specifica normativa End of waste da tempo attesa, potrebbe tendere all’azzeramento del ricorso allo smaltimento in discarica».

Guardando alla seconda voce di produzione dei rifiuti speciali – ovvero le attività di trattamento rifiuti e risanamento, che come tutte non sono a impatto zero – Brandolini evidenzia che «il 45,8% dei rifiuti speciali smaltiti in discarica sono prodotti dai rifiuti e in molti casi dagli urbani, sia indifferenziati che a valle delle attività di riciclo, il che ripropone, oltre alla necessità del potenziamento delle raccolte differenziate e delle attività di riciclo, il tema del deficit di impianti di recupero energetico». Infatti sia il recupero di materia sia il recupero di energia, come anche lo smaltimento in discarica, sono tutte forme di gestione previste dalla gerarchia europea – ma con un ordine di priorità ben preciso.

Di grande importanza poi il tema dei fanghi di depurazione delle acque reflue urbane – dove la prevenzione nella formazione del rifiuto, per motivi evidenti, è ben difficile da pensare –, la cui produzione annua «si avvicina a 3 milioni di tonnellate, un numero destinato a crescere se saranno realizzati e messi in esercizio i depuratori nelle zone che ne sono carenti. Nel 2018 il 56,3% sono stati smaltiti e solo il 43,7% recuperati: occorre quindi un grande sforzo finanziario e tecnologico per minimizzare lo smaltimento ricorrendo al recupero di materia ed energetico». Per fare questo serve «una normativa stabile e certa che, superando l’attuale norma che ha 28 anni, consenta agli operatori di investire», collocando correttamente il trattamento dei fanghi «nella transizione verso l’economia circolare e nella lotta ai cambiamenti climatici attraverso l’utilizzo in sicurezza in agricoltura, il recupero del fosforo e quello energetico».

Dall’emergenza degli ultimi mesi, ha concluso il vicepresidente di Utilitalia, è giunta infine un’altra importante indicazione: «Il lockdown che ha colpito molte filiere produttive o il crollo del prezzo del petrolio sono risultati fattori decisivi nel mercato delle materie prime seconde, con ricadute dirette sulle attività di riciclo e riflessi potenziali anche sulle raccolte differenziate. Ciò ha comportato un problema logistico per lo stoccaggio dei materiali ed economico per il loro ridotto valore. Per questi motivi, nel recepimento delle direttive afferenti all’economia circolare sono necessarie misure di sostegno al mercato delle materie prime seconde». Anche in questo caso sarebbero molti gli strumenti a disposizione, dagli acquisti pubblici verdi – il Green public procurement – ai crediti d’imposta per i beni riciclati, ma finora sono rimasti sempre delle armi spuntate.

L. A.