Il punto dagli Stati generali della green economy

Meno rifiuti in Italia a causa della pandemia, ma non è questa l’economia circolare che serve

La crisi non ha fermato la raccolta differenziata, ma i problemi iniziano dopo: mancano gli impianti per gestire i nostri scarti e mercati solidi per le materie prime seconde

[3 Novembre 2020]

La generazione di rifiuti è il contraltare della nostra società votata alla produzione e al consumo: naturale dunque che alla crisi economica legata alla pandemia stia seguendo un calo dei nostri scarti, su cui gli Stati generali della green economy – in corso nell’ambito dell’edizione digitale di Ecomondo-Keynergy – fanno oggi il punto.

Il settore più colpito è stato quello dei rifiuti speciali, che ha registrato cali fino al 25% rispetto all’anno precedente. Ma la pandemia e il lokdown hanno avuto conseguenze dirette e indirette anche sulla gestione dei rifiuti urbani e assimilati: nei mesi del lockdown si è registrata infatti una riduzione della produzione di rifiuti urbani tra il 10 e il 14% (stime Ispra e Utilitalia). Secondo alcune proiezioni Ispra questa riduzione porterà a un decremento dei rifiuti urbani su base annua di 1,5 Mt (-5%). Non tutte le frazioni merceologiche però sono state colpite dalla pandemia nello stesso modo: a causa delle restrizioni sugli spostamenti, infatti, da un lato si è registrato un aumento dei rifiuti domestici e della frazione organica, dall’altro un calo dei rifiuti assimilati (imballaggi, rifiuti ingombrati, Raee).

I cittadini durante i lockdown non hanno abbandonato l’abitudine alla raccolta differenziata – grazie anche agli sforzi messi in campo dalle aziende di servizio pubblico – ma i problemi iniziano dopo, e sono legati a lacune nazionali storiche: impianti industriali per gestire i nostri rifiuti carenti sul territorio, conseguente dipendenza dall’export e incapacità di sostenere un mercato adeguato (in primis attraverso gli acquisti verdi della pubblica amministrazione) alle materie prime seconde derivanti da riciclo.

Non a caso nei primi mesi dell’anno si sono rilevati problemi legati all’export dei rifiuti urbani, con riduzioni notevoli delle quantità: l’Italia – come ricordano dagli Stati generali – ne esporta «in media 500 kt ogni anno». Nello stesso periodo si sono registrate difficoltà anche nella vendita delle materie prime seconde ricavate dal riciclo dei rifiuti, a causa del fermo delle industrie e delle attività che le utilizzano. Difficoltà che hanno portato a un incremento degli stoccaggi di questi materiali, trovando ostacoli a essere riassorbiti dal mercato.

Del resto il blocco della produzione primaria ha prosciugato la domanda di materie prime seconde. Un’indagine della Fondazione per lo sviluppo sostenibile nel periodo del lockdown ha rilevato: un calo di circa il 60% della vendita della plastica e dei metalli ferrosi da Raee; una sensibile diminuzione delle vendite e dei prezzi dei metalli non ferrosi e alluminio; un calo in aprile di circa il 30% rispetto alla media dello stesso periodo negli anni precedenti della vendita di granulo e polverino da Pfu; un fermo della vendita di rifiuti di abbigliamento da raccolta differenziata; una diminuzione di circa il 60% (marzo) e dell’80% (aprile) della vendita di rifiuti da costruzione e demolizione; dell’80% delle vendite dei materiali derivanti dalla demolizione dei veicoli a fine vita; una difficoltà di approvvigionamento del macero da parte delle cartiere.

Ciò si è aggiunto al fatto che il settore dei rifiuti stava attraversando un periodo complesso già prima di questa emergenza, a fronte di diverse criticità quali «carenze impiantistiche per la gestione di alcune frazioni di rifiuti; blocco alle importazioni di rifiuti da parte della Cina; ritardi per le nuove autorizzazioni e per i rinnovi, caso per caso, delle attività di riciclo dei rifiuti che richiedono la qualifica di cessazione del rifiuto (End of waste) per realizzare prodotti vendibili».

Se la pandemia ha offerto l’occasione di prendere finalmente coscienza di problemi storici, adesso è l’occasione per cambiare rotta. Le ultime direttive Ue impongono al 2035 di avviare a riciclo il 65% dei rifiuti urbani, limitando i conferimenti in discarica al 10%, con dunque un 25% che dovrà essere avviato a valorizzazione energetica (termovalorizzazione compresa). I dati Ispra disponibili mostrano come tutto questo in Italia sia ancora lontano: nel 2018 in Italia il 49% dei rifiuti urbani è stato avviato a recupero di materia, il 18% a termovalorizzazione e il 22% in discarica.

Per migliorare è necessario dunque seguire la gerarchia indicata dall’Ue: in primis rafforzando il Programma nazionale di prevenzione dei rifiuti (quello vigente sta comunque rispettando gli obiettivi proposti per gli urbani, mentre i parametri riferiti agli speciali continuano a peggiorare) e conseguentemente adeguando l’infrastruttura impiantistica – definita come carente anche da Ispra – per l’avvio a recupero di materia, a recupero di energia e per lo smaltimento finale.

Il recepimento delle direttive Ue ha imposto l’elaborazione di un Programma nazionale rifiuti che sappia indicare quali e quanti impianti sono necessari a gestire i rifiuti che produciamo, secondo logica di sostenibilità e prossimità. E senza pregiudiziali di sorta: anche l’economia circolare produce rifiuti che è poi necessario gestire, in quanto neanche il migliore dei mondi possibili può proteggerci dal costante aumento dell’entropia cui tutto e tutti sono sottoposti.