Passi avanti nelle riconversioni delle raffinerie di Porto Marghera e Gela (e Livorno?)

Nell’ultimo anno record di idrocarburi prodotti da Eni, Legambiente: «Nemica del clima»

Il colosso energetico è controllato di fatto dal ministero dell’Economia. Ciafani: «Chiediamo al governo Conte di essere coerente con gli impegni sottoscritti»

[16 Luglio 2019]

Firmando l’Accordo di Parigi sul clima l’Italia si è impegnata a prendere la strada della decarbonizzazione per contenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali, eppure il più grande gruppo energetico nazionale – controllato di fatto dal ministero dell’Economia, e dunque dal Governo italiano – sta ancora andando in direzione contraria: nell’ultimo anno Eni ha prodotto 1,9 milioni di barili di idrocarburi al giorno, il numero più alto mai registrato dalla compagnia (+5% di produzione sul 2017), e ha acquisito 29.300 kmq di nuovi titoli minerari esplorativi, distribuiti tra Messico, Libano, Alaska, Indonesia e Marocco. Se dunque a parole il Governo continua a sostenere la transizione ecologica, i fatti parlano d’altro come testimonia il dossier pubblicato oggi da Legambiente

«Eni sta sbagliando rotta e chiediamo al governo Conte di essere coerente con gli impegni sottoscritti a livello internazionale indirizzando le politiche aziendali sulle fonti rinnovabili – dichiara il presidente del Cigno verde Stefano Ciafani – Nei prossimi mesi l’Italia dovrà, come tutti gli altri Stati membri, presentare un piano coerente con gli obiettivi europei su clima e energia al 2030, in grado anche di guardare agli obiettivi al 2040, mentre Eni continua a investire soprattutto sugli idrocarburi».

Le criticità, sottolinea l’associazione ambientalista, non sono legate solo ai cambiamenti climatici: sono diverse le vertenze giudiziarie e le proteste contro progetti e impianti controversi di Eni in Italia e nel resto del mondo, descritti nel dossier. Legambiente li passa in rassegna a cominciare dalla Val d’Agri, in Basilicata, dove negli anni 90 è iniziato lo sfruttamento di uno dei giacimenti on shore più importanti d’Europa, con 38 pozzi, di cui di cui 22 eroganti, e dove è in corso un processo sullo smaltimento illegale di rifiuti; Eni è sotto processo anche a Gela in Sicilia per disastro ambientale innominato causato dalla presenza della raffineria, dove nel 2016 è iniziata la riconversione dell’impianto all’olio di palma (ma negli ultimi mesi è stato completato anche un impianto pilota per estrarre biocarburanti da rifiuti organici); a Ragusa invece Legambiente ha presentato un esposto alla procura perché «dallo scorso aprile va avanti nel silenzio mediatico nazionale una fuoriuscita di petrolio dal pozzo Eni. Nel recente passato le azioni del Cigno verde si sono già dimostrate di ampio impatto: nel 2012 Edison ed Eni hanno presentato il progetto di costruzione della piattaforma Vega B – Vega, a circa 12 miglia dalla costa tra Scicli e Pozzallo nel canale di Sicilia è oggi la più grande piattaforma petrolifera fissa realizzata nel mare italiano –, definitivamente bocciata dal ministero dell’Ambiente lo scorso aprile grazie anche alle osservazioni presentate da Legambiente.

Sul fronte internazionale invece, spicca la vicenda della Nigeria, dove la comunità di Ikebiri ha portato la compagnia in tribunale per disastro ambientale; in Kazakistan, il villaggio di Berezovka dal 2003 sta cercando di ottenere il trasferimento dell’intera comunità in un luogo più sano e sicuro; in Montenegro sono diverse le organizzazioni che insieme alla Coalizione One Adriatic dal 2016 protestano contro Eni, la russa Novatek e il governo del Montenegro per la concessione, a 30 anni, di un’area di 1.228 kmq destinata alla ricerca e all’estrazione di idrocarburi; in Ecuador, invece, la Corte provinciale di Pastaza ha dato ragione al popolo Waorani intenzionato a proteggere 200 mila ettari di territorio nella foresta pluviale amazzonica destinati alle trivellazioni petrolifere.

Ma al di là dei singoli casi critici è l’intera linea di business Eni a sollevare ampie perplessità. La stessa compagnia appare ben consapevole dei rischi legati ai cambiamenti climatici: come testimonia il progetto DeRisk-Co promosso dalla Fondazione Eni Enrico Mattei, affinché si abbia una possibilità di non superare la soglia di +2° C di riscaldamento globale, il 60-80% delle riserve di carbone, petrolio e gas appartenenti a società quotate non potranno essere utilizzate come combustibili. Eppure quelle di Eni – che opera in 67 paesi, dove impiega complessivamente quasi 31mila lavoratori, di cui il 77% in Europa – continuano a crescere a livello record: Legambiente riporta che già oggi «le riserve di idrocarburi accertate di sua proprietà ammontano a 7.158 milioni di barili, distribuiti nei 5 continenti, per una vita utile di circa 10 anni stando agli attuali tassi di consumo. Il 52% delle riserve si trova in Africa (3.711 milioni di barili, con una produzione di 1,06 milioni di barili/giorno, la più alta al mondo), il 26% (1.891 milioni di barili) in Asia e Oceania (dove si producono 392 mila barili/giorno di idrocarburi)».

Per le fonti pulite, invece,  Eni “ha come obiettivo una potenza installata di energia elettrica pari a circa 5 GW al 2025” ma nel 2018 ha investito solo 143 milioni di euro in sviluppo di progetti su rinnovabili ed economia circolare. Una “svolta” a dir poco timida.

Le iniziative più rilevanti riguardano la conversione delle raffinerie in corso, ma anche su questo fronte Legambiente evidenzia perplessità: «A proposito di biocombustibili, a Porto Marghera (VE) è stata avviata nel 2014 la prima bioraffineria al mondo dalla capacità di circa 360 mila tonnellate annue di “green diesel/green nafta”. Entro il 2021 dovrebbe lavorare 560 mila tonnellate di materie prime all’anno e soddisfare circa la metà della richiesta Eni di biocarburanti. È alimentata principalmente da oli vegetali di importazione, certificati a detta di Eni secondo standard di sostenibilità ambientale e sociale internazionali. Il completamento della seconda fase della bioraffineria di Venezia e lo start-up di quella di Gela con una capacità fino a 720 mila tonnellate all’anno rientrano per l’azienda sotto il cappello delle rinnovabili. Un’interpretazione alquanto discutibile nell’ottica del raggiungimento dei target europei sullo sviluppo delle rinnovabili. Proprio a tal proposito Legambiente, Movimento difesa del cittadino e la delegazione italiana di Transport & Environment (Federazione Europea per il Trasporto e l’Ambiente) hanno depositato all’Autorità garante della concorrenza e del mercato una segnalazione per “pratica commerciale ingannevole” in relazione alla campagna pubblicitaria del biodiesel Eni diesel+ “-4% di consumi e -40% di emissioni gassose”, che secondo le associazioni non è supportata da prove o pubblicazioni tecniche e scientifiche sufficienti».

Nell’occasione Ciafani, sottolineando i problemi legati all’impiego dell’olio di palma nella bioraffineria, commentò: «Speriamo che i biocarburanti veri come gli olii vegetali usati, l’etanolo da scarti lignocellulosici e il biometano da rifiuti sostituiscano i carburanti fossili nelle poche categorie di mezzi a motore in cui l’elettrico non sarà competitivo come nei trasporti a lunga distanza. Proprio per questa ragione abbiamo chiesto all’Europa di dire basta all’olio di palma per la produzione dei carburanti e contemporaneamente chiediamo all’Eni di smettere di usarlo prima di esserne obbligata». Da questo punto di vista alcuni progressi sono stati compiuti: a Gela è nato un impianto pilota per ricavare biocarburanti da rifiuti organici, a marzo di quest’anno un protocollo di intesa siglato tra Syndial (Eni) e Veritas punta a sviluppare questa linea di business a Porto Marghera e anche a Livorno è in piedi un progetto simile. Si tratta di primi passi avanti da monitorare, ma è necessario fare di più e presto.