Nimby, Nimto e niente impianti: la crisi nella gestione rifiuti fotografata dalla Corte dei Conti

A monte ci sono problemi di comunicazione: «Una consapevolezza collettiva pare mancare quando l’attenzione si sposta dalla raccolta differenziata agli impianti di trattamento, riciclo e recupero energetico, necessari alla valorizzazione dei rifiuti e alla chiusura del ciclo»

[1 Giugno 2021]

Il paradosso di un’economia circolare “senza impianti” è la grande aporia che frena ogni ambizione di transizione ecologica nella gestione rifiuti italiana, certificata stavolta dalla Corte dei conti nel suo Rapporto 2021 sul coordinamento della finanza pubblica.

Un’analisi incentrata sui rifiuti urbani – una piccola parte rispetto al totale di quelli che generiamo, ma la cui gestione è direttamente in capo alla mano pubblica – che porta a galla uno stallo pressoché totale negli investimenti impiantistici, soprattutto quelli che si collocano a valle della raccolta differenziata.

Complessivamente, guardando al periodo 2012-2020 la Corte dei conti rileva che la realizzazione delle infrastrutture per la gestione del ciclo dei rifiuti è «decisamente inferiore rispetto a quanto programmato e finanziato». Riassumendo a fronte di circa «1.548 milioni di opere finanziate nel periodo 2012- 2020, l’avanzamento finanziario – proxy del tasso realizzazione – si ferma al 20 per cento (316 milioni). Il complemento è rappresentato da finanziamenti ad opere che non sono mai state avviate (per 576 milioni) e da opere interventi e opere finanziate e non ancora realizzate (per 655 milioni)».

In questo contesto di stallo «si pianificano investimenti superiori di circa il 60% rispetto a quanto realizzato, a indicare un fabbisogno crescente». Le infrastrutture dedicate alla raccolta differenziata mostrano comunque un grado di realizzazione più elevato, mentre la realizzazione per le infrastrutture da trattamento è quella con l’avanzamento più lento. Tanto che «la capacità di realizzazione delle opere di maggiori dimensioni è estremamente ridotta: il tasso di realizzazione si ferma a poco più del 5%, segnalando che in sostanza queste opere non vengono realizzate».

La quota prevalente delle opere finanziate e avviate per la gestione rifiuti è posta in capo ai Comuni (703 milioni su 1.548, il 45%), ma per le infrastrutture di competenza delle Regioni, delle Province e delle Città Metropolitane il tasso di realizzazione crolla al 4%. Come mai? La Corte dei conti aiuta a chiarire questa distanza guardando alle varie tipologie d’impianti.

La taglia media degli interventi finanziati per essere realizzati dai Comuni è poco sopra i 400mila euro, e giustificata dalla natura delle opere: in primis i centri di raccolta. Regioni, Province e Città Metropolitane presentano investimenti più importanti (oltre 10 milioni in media per intervento) e relativi a opere più complesse al servizio di aree vaste (termovalorizzatori, ecodistretti, etc). Ed è qui che appunto la filiera si blocca, a causa delle criticità messe in evidenza dalla Corte.

In primo luogo, il report evidenzia come oltre il 60%  del tempo che intercorre dalla progettazione all’entrata in esercizio di un’infrastruttura per la gestione dei rifiuti urbani è assorbito dall’iter di progettazione, ivi incluse le fasi autorizzative – anche in questo caso più corte quando ci si ferma alla raccolta differenziata, più lunghe andando oltre – a fronte di un tempo tutto sommato fisiologico per l’esecuzione. «Tale evidenza – osserva la Corte dei conti – veicola la necessità di operare un intervento di semplificazione per ridurre la complessità e la durata degli iter autorizzativi.

Ma come mai le infrastrutture relative alla raccolta differenziate incontrano meno ostacoli delle altre? Secondo la Corte «ciò si spiega – da un lato – con la minore complessità tecnica e realizzativa, laddove – dall’altro – rileva la maggiore accettazione sociale delle stesse, con l’insorgere di fenomeni di Nimby (Not in my back yard) e Nimto (Not in my term of office) meno pronunciati. Con ogni probabilità, l’impiantistica connessa con la raccolta dei rifiuti è percepita come di maggiore utilità, oltre ad evidenziare un impatto territoriale meno invasivo, grazie all’attenzione ricevuta da parte della comunicazione istituzionale e dell’enfasi posta sull’avvio delle raccolte differenziate. Una consapevolezza collettiva che pare mancare, invece quando l’attenzione si sposta agli impianti di trattamento, riciclo e recupero energetico, necessari alla valorizzazione dei rifiuti e alla chiusura del ciclo».

Dunque, se la gestione rifiuti italiana è bloccata, in primo luogo è un problema di comunicazione. Ma anche la programmazione impiantistica, naturalmente, ha le sue buone colpe da espiare.

L’analisi della Corte dei conti mostra infatti «una pianificazione regionale non sempre adeguata, con diversi Piani regionali per la gestione rifiuti che mostrano forti scostamenti tra gli obiettivi ivi indicati e l’evoluzione effettiva della produzione di rifiuto, da cui origina una sottostima dei fabbisogni, ascrivibile a politiche di prevenzione dagli esiti troppo ambiziosi o a proiezioni di aumento delle raccolte differenziate e/o di riduzione del rifiuto indifferenziato che non trovano riscontro nei fatti. Una criticità che sottende l’esigenza di riallineare la pianificazione regionale per rendere credibile il raggiungimento degli obiettivi comunitari».

Per farlo un’occasione preziosa arriva grazie al Programma nazionale per la gestione dei rifiuti (Pngr) – richiamato anche all’interno del Pnrr – il cui iter è stato avviato dal ministero dell’Ambiente lo scorso novembre e dovrà concludersi entro marzo 2022: «Tra le altre cose, il Pngr – spiega la Corte – è chiamato a fissare i macro-obiettivi e a definire i criteri e le linee strategiche, a cui le Regioni e le Province autonome si attengono nell’elaborazione dei Piani regionali di gestione dei rifiuti. Appare infatti essenziale che venga definita una strategia nazionale volta a individuare compiutamente le azioni e gli interventi per allineare la pianificazione regionale con il conseguimento degli ambiziosi obiettivi ambientali di derivazione comunitaria».

Obiettivi anch’essi incentrati sui rifiuti urbani, ma resta il fatto che gli speciali – in Italia – sono oltre cinque volte di più. Come già accennato infatti i rifiuti urbani ricadono nell’ambito della privativa comunale e dunque la loro gestione è (su base diretta o tramite affidamento) in capo alla mano pubblica, mentre i rifiuti speciali sono di norma affidati al mercato. Ma al proposito è indispensabile ricordare che anche tutta l’infrastruttura impiantistica per la loro gestione, dal riciclo al recupero energetico allo smaltimento, è soggetta e dunque dipende dalle autorizzazioni pubbliche (generalmente regionali). Che hanno dunque una responsabilità indiretta fondamentale nella gestione (o meno) anche dei rifiuti speciali.