Plastica, i rifiuti che la Cina non vuole più intasano gli impianti italiani

Non c’è economia circolare senza politica industriale e (adeguata) struttura impiantistica: l’Italia lo sta imparando a sue spese

[26 Luglio 2017]

Nelle scorse puntate greenreport (qui e qui) ha cercato di approfondire il problema della crisi della filiera post-consumo della plastica italiana, che si è trovata a gestire più rifiuti da raccolta differenziata del previsto, e soprattutto di una qualità peggiore rispetto al passato. Abbiamo cercato di mostrare i punti deboli del sistema, disvelare le cause e proporre soluzioni: prima di tutto quella di una progettazione più sostenibile degli imballaggi (prevenzione), poi di un sistema di incentivazione fiscale al riciclo e di una presa di coscienza da parte della pubblica amministrazione, che smetta di guardare solo al dato quantitativo della raccolta differenziata e cominci a pensare anche alla qualità, al successivo riciclo e infine al ri-acquisto dei prodotti riciclati: la spesa in acquisti di beni e servizi da parte della Pubblica amministrazione italiane vale oggi 284 miliardi di euro – circa il 17% del Pil – , e avrebbe quindi tutta la forza per riorientare l’economia in senso ecologico, se solo lo si volesse.

Detto tutto ciò non possiamo però esimerci di allargare lo sguardo anche al di fuori dei nostri confini. Perché se il problema è venuto a galla oggi e non magari fra qualche anno, dipende da una superpotenza globale come la Cina. Eh sì. La Cina. Perché la Cina non è così diversa da noi: pochi giorni fa il governo cinese ha notificato all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) che smetterà di accettare spedizioni di 24 tipi di rifiuti e il lancio di una campagna contro la “spazzatura straniera”. La Cina non è così diversa da noi, perché il governo ha semplicemente annunciato una cosa che il mercato aveva già deciso: nel 2016 infatti si è toccato la punta record di 7,3 milioni di tonnellate di rifiuti plastici importati dal gigante asiatico, ma a partire proprio dagli ultimi mesi dello scorso anno questa tendenza si è interrotta. La Cina infatti aveva già iniziato a ridurre le importazioni di certi rifiuti da diversi paesi che per anni se ne sono approfittati, mandando laggiù materiali di pessima qualità (e badate bene, parliamo solo di traffici legali, controllati e certificati).

Per un po’ il giochino è continuato, magari utilizzando triangolazioni con paesi da cui venivano fatti transitare i rifiuti e che non erano stati ancora messi nella ‘lista nera’; poi, alla fine anche queste sponde sono venute meno e nel frattempo i cinesi si sono costruiti gli impianti. Tanti impianti e di ogni genere, così da evitare l’import: per selezionare e riciclare i rifiuti prodotti da loro stessi secondo la logica di prossimità (che poi, ambientalmente, è cosa razionale e sostenibile). Una tendenza cui dovremmo – velocemente – abituarci, dato che non riguarda “solo” la Cina: anche la Germania, che finora si è sobbarcata (profusamente pagata) la gestione dei rifiuti contenenti amianto italiani che l’Italia non vuole, presto ci lascerà con il cerino in mano.

Tornando alla filiera dei rifiuti plastici, la conseguenza della nuova politica cinese è chiara: i riciclatori europei hanno improvvisamente avuto a loro disposizione molta più scelta di materiali, e a prezzi molto più convenienti. Il risultato è che chi aveva raccolte differenziate e selezioni di qualità (la Germania) è riuscita comunque a vendere, magari a prezzi molto ridotti, i propri rifiuti riciclabili. Mentre i paesi che avevano un materiale di qualità inferiore non sanno più a chi darlo. Tra questi anche l’Italia, con la richiesta di Corepla di riservare una quota di termovalorizzazione anche alle plastiche più difficili da riciclare.