Blitz di Greenpeace durante l’assemblea degli azionisti: «Impegno solo di facciata»

Quanto sono credibili gli impegni Eni nella lotta contro la crisi climatica?

Descalzi: «Un’evoluzione del nostro modello di business che ci porterà alla neutralità carbonica nel 2050»

[12 Maggio 2021]

Una multinazionale italiana, controllata di fatto dal ministero dell’Economia, ogni anno con le sue attività emette da sola più gas serra di quanto faccia l’intero Paese: la multinazionale in questione è l’Eni, e il paragone è utile a commisurare quanto sia necessario e sfidante l’obiettivo che ha assunto la società di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. Un impegno che gli ambientalisti di Greenpeace considerano però greenwashing allo stato puro o quasi, tanto da inscenare una plateale azione di protesta oggi che si riunisce l’assemblea degli azionisti Eni.

All’alba di stamani attiviste e attivisti hanno scalato un palazzo che si trova di fronte al quartier generale di Eni a Roma, aprendo un enorme striscione con il messaggio “Eni killer del clima” e la testa del Cane a sei zampe che brucia il pianeta. Un blitz a 24 ore dall’ulteriore azione di protesta realizzata ieri, con una motivazione molto chiara: «Abbiamo scalato la facciata di un edificio di fronte alla sede di Eni per contestare l’impegno dell’azienda contro i cambiamenti climatici, che è appunto solo di facciata – dichiarano da Greenpeace – Tanti obiettivi di lungo periodo, mentre nei prossimi quattro anni Eni ha addirittura in programma di aumentare le estrazioni di gas e petrolio».

Un’opinione naturalmente opposta a quella dell’ad Eni, Claudio Descalzi, che oggi ha presentato il nuovo report di sostenibilità del Cane a sei zampe: «Eni for mostra il nostro impegno per una transizione energetica equa e inclusiva, che garantisca l’accesso all’energia per tutti, preservando l’ambiente. Negli ultimi anni abbiamo impostato la nostra strategia su un’evoluzione del nostro modello di business fortemente orientato alla creazione di valore per tutti gli stakeholder nel lungo termine, tracciando la strada che ci porterà alla neutralità carbonica nel 2050».

Questa strada in realtà è già stata svelata lo scorso febbraio, con l’ultimo piano industriale Eni che appunto mira ad azzerare le emissioni di CO2 legate al proprio business in termini assoluti (incluso lo scope 3, e dunque comprendente l’uso dei prodotti venduti) entro il 2050, introducendo target intermedi pari a -25% entro il 2030 vs. 2018 e del 65% entro il 2040.

Oggi il report “Eni for neutralità carbonica” illustra questo percorso affermando che «la decarbonizzazione dei prodotti energetici e delle operazioni dell’azienda sarà conseguita attraverso  attività in parte già avviate e tecnologie esistenti, che consentiranno il raddoppio della capacità di bioraffinazione nei prossimi 4 anni, l’incremento della produzione e commercializzazione di biometano e idrogeno e la crescita nella capacità di produzione di energia da fonti rinnovabili fino ad arrivare a 60 GW al 2050, oltre che lo sviluppo di iniziative e sistemi per lo stoccaggio e l’utilizzo della CO2».

Tutti punti che mostrano delle ampie criticità secondo gli ambientalisti, rimandando gli impegni in futuro mentre il peso dei combustibili fossili continuerà a crescere: «Nel Piano strategico è infatti previsto che la crescita nella produzione di idrocarburi continuerà comunque, per tutta la durata del piano (2021-2024), con una media del 4% all’anno, superiore al 3,5% medio annuo previsto nel piano precedente, relativo al periodo 2019-2025». Al contrario, sulle rinnovabili «per fare un paragone con altre grandi aziende del settore del petrolio e del gas, British Petroleum (BP) ha un obiettivo di 50 GW entro il 2030, mentre – facendo riferimento alla stessa data – la francese Total ha dichiarato di puntare a quota 100 GW».

La cattura e lo stoccaggio della CO2 (tramite la controversa tecnologia Ccs) viene bollato come una “chimera” e anche l’impegno Eni sulla compensazione delle emissioni attraverso progetti Redd+ – l’obiettivo è di oltre 6 milioni di tonnellate/anno di CO2 entro il 2024 – viene valutato da Greenpeace e Re:Common come greenwashing.

Più sfumato il giudizio sulla transizione verso le bioraffinerie, che occupa un «ruolo centrale» nella strategia Eni, come mostra l’impegno profuso in questi anni nei poli di Venezia prima e di Gela poi: «I biocarburanti avanzati sono fondamentali per ridurre le emissioni di gas serra nel settore dei trasporti. Eni ha convertito le raffinerie di Venezia e Gela consentendo la lavorazione di materie prime di origine biologica tra cui oli vegetali, scarti della lavorazione di piante oleaginose, grassi animali, oli da cucina usati o estratti da alghe. Eni – spiega la multinazionale – ha una capacità di lavorazione totale di 1,1 milioni ton/anno e ha fissato l’obiettivo di raddoppiare la capacità totale entro il 2024 per arrivare a 5/6 milioni di tonnellate al 2050».

Qui i dubbi degli ambientalisti vertono principalmente sull’approvvigionamento delle bioraffinerie. Eni conferma infatti l’obiettivo di abbandonare l’uso di olio di palma entro il 2023, lasciando spazio a cariche alternative (come ad esempio oli alimentari usati e di frittura, grassi animali e scarti della lavorazione di oli vegetali) e di tipo advanced (per esempio materiale lignocellulosico, e bio-oli) per realizzare un modello di economia circolare per la produzione di biocarburante HVO (olio vegetale idrotrattato) – che addizionato al gasolio, dà vita a Eni Diesel+, il carburante premium di Eni –, Eni HVO nafta, HVO gpl e HVO jet fuel.

Già oggi però circa il 50% degli oli alimentari esausti (Uco) raccolti in Italia viene trattato nelle bioraffinerie Eni; da dove arriveranno gli altri approvvigionamenti? «Eni prevede di abbandonare l’olio di palma entro il 2023 con l’obiettivo di utilizzare per l’80% rifiuti e residui entro il 2024 – osserva ancora Greenpeace – Ma l’acquisto di queste materie prime secondarie per le bioraffinerie è soggetto a notevoli rischi di carattere ambientale. Secondo il Gestore servizi energetici, negli ultimi anni, almeno 90 mila tonnellate di “falso” Uco sarebbero state importate in Italia dalla Cina, trattate in raffinerie spagnole e infine distribuite nelle normali pompe di carburante italiane. Si tratterebbe, in realtà, di olio di palma o di soia grezzo, probabilmente di qualità scadente, coltivato in piantagioni non certificate e frutto di deforestazione, certificato però come Uco per ottenere sussidi».

Un modello dunque che andrebbe accorciato radicalmente per rendere davvero sostenibile e circolare la strategia di business delle bioraffinerie, puntando ad un’eventuale gestione di rifiuti prodotti su suolo nazionale e senza altra destinazione per il recupero di materia.

L. A.