Rifiuti, come gestire mascherine e guanti? Il punto di vista di Patty L’Abbate

La senatrice M5S esplora le possibilità di riuso e riciclo a fronte del massiccio utilizzo di questi dispositivi imposto da Covid-19. Ma resta il problema di affrontare lo smaltimento in sicurezza

[5 Giugno 2020]

L’Ispra stima che, solo quest’anno, l’uso di mascherine e guanti per difenderci da Covid-19 produrrà fino a 440.000 tonnellate di rifiuti. Considerati i rischi infettivi connessi, in quali casi è possibile promuovere l’uso di mascherine riutilizzabili in modo da ridurre quest’ammontare? Risponde la senatrice Patty L’Abbate (M5S).

«Purtroppo è vero, avremo un notevole amento di rifiuti, non solo per i dispositivi di protezione come i guanti e le mascherine, ma anche per il materiale monouso utilizzato dalle attività commerciali. Ricordiamo tutto il lavoro che è stato fatto per diminuire l’uso della plastica, la direttiva europea Sup, le macchine mangia-plastica nella legge Clima, la raccolta della plastica attraverso i pescatori: ora purtroppo siamo tornati ad abitudini sbagliate. Il primo passo da effettuare dunque è prevenire la formazione di rifiuto, ossia  produrre mascherine sostenibili, in monomateriale, oppure assemblate con più materiali che siano  facilmente separabili dopo l’uso, a fine vita.

Occupandomi di sostenibilità dei processi produttivi, con alcune aziende stiamo verificando come realizzare prototipi con elastici e parte metallica rimovibile, tessuto rilavabile e un filtro interno intercambiabile. Quindi è necessario intervenire a monte nella fase di progettazione (eco-design), come previsto dall’articolo n 180  del 252/2006 che stiamo modificando con il pacchetto economia circolare proprio in questi giorni in Senato. Costruendo mascherine da poter ricondizionare, eliminando eventuale virus e batteri (a temperature superiori a 60 gradi per un tempo di contatto da definire), possiamo utilizzarle per un numero di cicli fino a quando conservano le caratteristiche d’uso. Attualmente sono in commercio modelli lavabili con all’interno filtri intercambiabili.

Stiamo comunque parlando di mascherine per la collettività, a basso rischio, per le tipologie utilizzate dagli operatori sanitari la situazione si complica.  Ieri il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, in audizione in Commissione di inchiesta sul ciclo dei rifiuti, ha detto che  le mascherine chirurgiche possono esser utilizzate anche per un uso prolungato da 2 a 6 ore ma non ci sono evidenze che ne garantiscano il riutilizzo in sicurezza. Ci sono delle sperimentazioni in atto per verificare come poter rigenerare e riutilizzare anche questi dispositivi. Ad esempio vi è l’utilizzo di  vapori di perossido di azoto o di ozono,  e a mio avviso visto l’utilizzo futuro è necessario trovare una soluzione».

Per quanto riguarda i guanti, invece?

«Attualmente ne sono utilizzati maggiormente  quattro tipi: in lattice, in vinile, in nitrile e i superleggeri in polietilene. Questi ultimi sono un vero problema per la “dispersione” nell’ambiente, fenomeno che ha interessato oggetti come tappi di bottiglie, cannucce, ritrovati in spiaggia e in mare. Il vinile e il polietilene possono essere smaltiti come plastica mentre il nitrile può essere riciclato e avere un seconda vita, utilizzato come materia prima in input ad altre filiere. Ad esempio negli Stati Uniti esiste da tempo il programma di riciclo di guanti in nitrile gestito dalla Kimtech: diventano panchine o altri oggetti simili. Sarebbe comunque ottimale in futuro intraprendere la produzione di guanti biodegradabili e compostabili.

La raccolta potrà avvenire dopo il tempo necessario per il decadimento dell’eventuale virus, e in seguito un primo trattamento presso un deposito di stoccaggio potrebbe essere la disinfezione. La fase successiva consiste nel trasporto verso impianti di selezione e separazione. In Italia esistono alcuni impianti di questo tipo, ma è necessario investire ancora nel settore. Dopo la separazione, ogni materia prima può essere trattata con processi meccanici di triturazione o chimici di estrusione e diventare materia prima seconda da utilizzare in input in una differente filiera produttiva (open loop), ma c’è ancora un valore residuo da utilizzare. Questo è uno dei fondamenti del principio di economia circolare: ridare valore, recuperare valore».

Secondo le indicazioni arrivate da Istituto superiore di sanità (Iss), Ispra e ministero dell’Ambiente, una volta giunti a fine vita guanti e mascherine vanno gettati nell’indifferenziato per essere avviati a termovalorizzazione o in discarica, in modo da minimizzare i rischi per salute e ambiente. Come del resto ogni anno avviene per oltre 95mila tonnellate di rifiuti a rischio infettivo, inceneriti. Ci sono possibilità sostenibili dal punto di vista ambientale ed economico per l’avvio a riciclo?

«Le dico prima di tutto perché non dobbiamo bruciarli.  Perché una combustione crea sempre come prodotto di reazione CO2, particolato (PM 2.5, PM 10), NOx, ossia sostanze fortemente accusate di veicolare il coronavirus-19 e di aumentare il riscaldamento globale. Quindi se non poniamo attenzione alla gestione del ciclo delle mascherine e guanti, rischiamo di aggravare le cause che ci hanno portato all’emergenza. È come il cane che si morde la coda, o in termini scientifici potremmo definirlo “effetto rebound”, o anello di retroazione negativa: cerco di effettuare un’azione migliorativa
(brucio i miei rifiuti che ritengo pericolosi per la salute)  ma in realtà peggioro la situazione di partenza che è stata la causa del problema. L’avvio al riciclo deve essere dunque tentato in tutti i modi possibili, anche incentivando e fornendo supporto al mercato dei materiali riciclati e dei prodotti ecosostenibili».

Come messo in evidenza dalle audizioni in commissione Ecomafie e dall’Iss, il problema principale posto dall’uso massiccio di Dpi monouso non è nella loro gestione come rifiuti, ma l’abbandono di mascherine e guanti nell’ambiente da parte di incivili: come arginare il fenomeno?

«Come ho già detto, non nascondo la mia preoccupazione a riguardo. Possiamo vietare con delle norme l’abbandono di tali oggetti ma è la sensibilizzazione del cittadino che può cambiare lo scenario. Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha avviato una sperimentazione ponendo dei raccoglitori in punti strategici come le farmacie. È partita anche una campagna di  sensibilizzare  attraverso spot con testimonial importanti. Nel frattempo in alcuni Comuni si cerca di arginare il problema con le multe – a Roma la sindaca Virginia Raggi ha firmato una apposita ordinanza e così è stato in molte città – e in occasione della Giornata mondiale dell’ambiente si stanno organizzando raccolte speciali in tutta Italia».

Più in generale, i servizi di gestione rifiuti hanno dimostrato tutta la loro essenzialità nella pandemia in corso, che ha messo però in evidenza anche quanto il sistema impiantistico sia fragile. Le aziende di settore chiedono all’unanimità una strategia nazionale per colmare tutti i deficit impiantistici (di avvio a riciclo, di recupero energetico, di smaltimento) lungo lo Stivale. Crede che le istituzioni siano pronte a raccogliere questo impegno?

«A mio avviso serve un piano chiaro nazionale per chiudere il cerchio dei rifiuti, partendo dal presupposto che la normativa europea individua nell’economia circolare e nel forte potenziamento delle attività di riciclo la via maestra per una crescita sostenibile. Per raggiungere gli obiettivi fissati al 2035 bisognerà fare ancora molto. Bisogna creare dunque la filiera inversa per chiudere il ciclo: i prodotti a fine vita diventano qualcosa di cui disfarsi, un rifiuto, e noi dovremmo trasformarli in risorse per la comunità. Basta osservare la natura, che non produce rifiuti e possiede dei cicli chiusi. Dobbiamo essere capaci di rendere ciclici i nostri processi antropici, virare verso un’economia ecologica dal volto umano, attenta alla cura della “casa comune”».

Guardando all’ultimo pacchetto di direttive europee sull’economia circolare, in recepimento al Senato, per i rifiuti urbani l’Ue punta al 65% di riciclo entro il 2035 (in Italia siamo al 49%) e al 10% di avvio a smaltimento in discarica (il dato italiano è oggi al 22%), il che significa che il 25% di rifiuti dovrà essere avviato a valorizzazione energetica (come nel caso della termovalorizzazione, oggi al 18%). Questo significa che sono necessari nuovi impianti lungo tutta la filiera, ma spesso la loro realizzazione è bloccata da sindromi Nimby e Nimto. Come superarle?

«Forse la sindrome di Nimby talvolta blocca impianti utili come i parchi eolici, è legittimo che i cittadini gridino “not in my backyard” quando vengono a conoscenza di una opera infrastrutturale che si vuol costruire vicino alla loro comunità. Capitò anche durante la costruzione della Torre Eiffel: poi sappiamo come è andata finire. Per la sindrome di Nimto, cioè “not in my terms of office”, non nel mio mandato elettorale, non credo sia questo il caso. Come lei dice l’ultimo pacchetto sull’economia circolare è da poco passato in Senato per il recepimento. Si tratta di provvedimenti che riguardano tematiche di grande interesse e fortunatamente provengono da un connubio fra decisori politici e scienziati che monitorano lo stato del nostro ambiente. Dobbiamo effettuare azioni per diminuire il climate change, dobbiamo virare vero gli obbiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030. Come possiamo promettere ai nostri ragazzi la neutralità climatica nel 2050 con l’attuazione della strategia Green New Deal se poi intendiamo costruire inceneritori che producono CO2? La termodinamica con le sue leggi parla chiaro, non possiamo più continuare a chiudere gli occhi e non vedere».