Rifiuti e impianti, oltre al referendum c’è (molto) di più

Gli scarti non spariscono perché spariscono gli impianti, neppure se si sostituiscono l’un con l’altro

[19 Agosto 2020]

Il comitato labronico “Oltre l’inceneritore” esulta, comunicando ieri «con soddisfazione che il Collegio di Garanzia del Comune di Livorno ha deliberato all’unanimità l’ammissione della richiesta da noi presentata il 10 aprile 2019 di svolgere un referendum propositivo sulla creazione di nuove attività di trattamento meccanico e biologico dei rifiuti».

Partiamo da una premessa: è giusto che i livornesi possano esprimersi sulla gestione dei rifiuti nella propria città? Sì, d’altra parte nel nostro ordinamento il modo principale per farlo è quello delle elezioni, ed è quindi agli organi della democrazia rappresentativa che in ogni caso spetta l’onere della scelta. Il punto è un altro: deliberare senza conoscere è una buona idea? Naturalmente no, tanto più se un referendum secco rischia di banalizzare un tema molto complesso. Nel caso specifico, ad esempio, sarebbe forse più utile un percorso partecipato di informazione non sui singoli impianti, ma sul funzionamento dell’intero ciclo integrato di gestione rifiuti.

Nulla di male infatti sul referendum, non fosse che il tema sembra posto già in partenza in temi non corretti: il trattamento meccanico e biologico dei rifiuti, sostanzialmente, sarebbe alternativo all’inceneritore. Così infatti si legge nel quesito referendario proposto dal comitato: “Volete che il Consiglio comunale di Livorno decida l’immediata creazione di nuove attività di trattamento meccanico e biologico dei rifiuti urbani [..] vincolate contestualmente allo spegnimento entro il 31/12/2021 dell’inceneritore di rifiuti costruito negli anni ’70 a Livorno, nel quale vengono conferiti attualmente rifiuti anche da altre province toscane?”.

Intanto va detto che il Comune di Livorno ha già deciso, a torto o a ragione, che il termovalorizzatore lo chiuderà ma nel 2023. Cosa ribadita anche dall’amministratore unico di Aamps Raphael Rossi in un’intervista rilasciata poche settimane fa al Tirreno, dove spiegava che «a fine ottobre 2023 scadrà l’autorizzazione e non è pensabile che possa essere prorogata la sua vita. Richiederebbe infatti investimenti importanti che lo collocherebbero fuori mercato».

In quell’intervista aggiungeva poi alcuni dati molto importanti per un’analisi veritiera della situazione, che temiamo sfugga proprio nella logica strettamente binaria del referendum. Dice infatti Rossi in quell’intervista che oltre alla raccolta differenziata ad oggi Livorno produce anche 20mila tonnellate di rifiuti indifferenziati, e che tra tre anni questa frazione «andrà dove sarà indicato nel piano di ambito e dalla Regione: al mercato delle discariche e degli inceneritori che purtroppo sono ancora abbastanza presenti sul territorio». Anche auspicando che queste 20mila tonnellate di indifferenziato vengano ulteriormente ridotte, è necessario precisare che il computo non si esaurisce qui: solo guardando ai rifiuti urbani vanno aggiunti almeno gli scarti della raccolta differenziata (il dato nazionale parla di circa il 20% di quanto raccolto), per non parlare di quelli da riciclo che esitano anche dall’economia circolare ( le operazioni di risanamento e trattamento rifiuti rappresentano la seconda voce di produzione di rifiuti speciali nel Paese).

Tutto mentre sul territorio regionale gli impianti di gestione rifiuti continuano a diminuire: la Toscana, che da anni sta smantellando i propri termovalorizzatori (erano 8 nel 2012, adesso sono 5 e se verranno mantenute le promesse di Livorno e Montale arriveremo a 3) sta ricorrendo sempre più alla discarica (33% dei rifiuti urbani) e si stima che almeno 8.760 tir carichi di spazzatura valichino ogni anno i confini regionali, con elevati costi ambientali (si pensi solo al relativo traffico e smog) oltre che per le aziende e per i cittadini, in termini di Tari più salate.

Ma veniamo all’impianto oggetto “dell’alternativa”: cosa sono e cosa fanno gli impianti di trattamento meccanico-biologico (Tmb)? Spoiler: non sono alternativi agli inceneritori. Sono piattaforme di selezione intermedie, dove ad oggi i materiali in uscita ad oggi vanno, fonte Ispra: 53,4% in discarica, 25,2% a incenerimento, a riciclo l’1,1%.  Certo, oggi si stanno affacciando soluzioni più moderne, le cosiddette “fabbriche di materia” che sono in primis dei sistemi di selezione meccanica dei rifiuti (indifferenziati e non) moderni e più efficienti, ma che comunque hanno bisogno a valle anche di impianti di termovalorizzazione/smaltimento come mostra l’ammodernamento del polo impiantistico di San Zeno appena approvato dalla Regione.

Quindi, ricapitolando: se si vogliono chiudere gli inceneritori bisogna sapere anche quali sono le alternative. Con la consapevolezza, soprattutto, che una corretta gestione rifiuti si fa in modo integrato, con impianti dedicati lungo tutta la gerarchia indicata dall’Ue: dopo la prevenzione (che si fa soprattutto a livello industriale, di ecodesign), riuso, riciclo, recupero di energia, discarica. In altre parole tutto ciò che ha valore e può essere riciclato ha un suo percorso (che a sua volta produce nuovi scarti da gestire) e il resto, che non è poco, o si brucia o si smaltisce in discarica. Parliamo solo dei rifiuti urbani peraltro, che sono l’iceberg di tutti quelli che produciamo a livello nazionale: circa 30 milioni di tonnellate l’anno su 170 totali.

Quindi quel “resto” va portato altrove, che non sia l’avviamento al riciclo. Un altrove che può fare l’esatto discorso di moda a Livorno: “non vogliamo diventare la pattumiera della…” e rimandare il mittente o a un altro altrove i nostri rifiuti. Trovata comunque una strada la si può percorrere, con i costi che ne conseguono, ma si deve raccontare per quello che è, non per quello che vorremmo che fosse (ovvero una miniera d’oro e di posti di lavoro, senza impatti ambientali).

Se l’obiettivo, invece, è quello di raggiungere un’economia di tipo circolare, è un assurdo oggi porre il problema (come si fa nel quesito referendario) dei rifiuti “da fuori” (il biodigestore che si vuole fare a Livorno al posto di costruirlo a Capannori è un buon esempio). Sebbene non tutti i rifiuti possano essere oggi considerati risorse – ovvero alcune frazioni non hanno valore economico sul mercato, quando non si parla addirittura di disvalore –, dobbiamo scegliere a quale obiettivo tendenziale mirare: sono scarti o risorse? Perché se sono risorse è utile ricordare che oggi l’Italia metabolizza ogni anno 500 milioni di tonnellate di materie prime, di cui il 65% importate, da cui esitano prodotti che consumiamo e appunto 170 milioni di tonnellate/anno di rifiuti.

Dunque, o torniamo alla logica di decenni fa, con una mini (e problematica) discarica di servizio per ogni Comune; oppure intraprendiamo la strada dell’economia circolare che significa anche dotarsi degli impianti necessari, gestendo flussi di rifiuti adeguati per poter sostenere i relativi costi d’investimento (e dunque probabilmente provenienti da un’area vasta, in una logica di respiro almeno regionale). Quali impianti? Quelli che possano permetterci di creare posti di lavoro e risalire la gerarchia Ue di gestione rifiuti, seguendo quanto disposto per gli urbani nelle direttive europee appena recepite dal governo: ad esempio quello di portare il riciclo dei rifiuti urbani ad almeno il 55% entro il 2025, al 60% entro il 2030 e al 65% entro il 2035. In parallelo, è peraltro prevista la diminuzione dell’uso delle discariche, dove entro il 2035 dovrà essere conferito al massimo il 10% dei rifiuti urbani prodotti (il che significa al contempo che per la rimanente quota del 25% c’è il recupero energetico).

Ben venga quindi la democrazia partecipata, ma attenzione a come interpretarne l’esisto, in un senso o nell’altro. I rifiuti non spariscono perché spariscono gli impianti, e neppure se si sostituiscono l’un con l’altro, tanto meno se si differenziano. Nulla si crea e nulla si distrugge.