Presentato oggi a Roma il Was report 2019

Rifiuti, l’Italia è in «emergenza permanente». Servono nuovi impianti

Marangoni (Althesys): «Il gap infrastrutturale di cui tuttora soffrono alcune Regioni e la mancanza di un’opportuna pianificazione di medio-lungo termine hanno generato negli anni ingenti costi economici e ambientali». A rischio anche gli obiettivi Ue al 2035

[28 Novembre 2019]

Nonostante tutti i nostri sforzi per ignorare il problema dei rifiuti una volta – quando va bene – raccolti in modo differenziato, la spazzatura che produciamo necessita di essere gestita; non essendoci però sul territorio abbastanza impianti industriali farlo in modo adeguato, il risultato è quello di una “emergenza permanente” di cui stiamo già pagando il conto, e che sta portando l’Italia fuori dalla retta via per centrare gli obiettivi europei in materia di economia circolare. È questa in sintesi l’amara constatazione che offre il report 2019 di Was, il think tank sulle strategie di gestione dei rifiuti di Althesys, presentato oggi a Roma.

«Il patrimonio impiantistico rimane uno dei nodi centrali delle strategie aziendali e, più in generale, di una politica di gestione dei rifiuti nel nostro Paese – spiega Alessandro Marangoni, ad di Althesys – Il gap infrastrutturale di cui tuttora soffrono alcune Regioni e la mancanza di un’opportuna pianificazione di medio-lungo termine hanno generato negli anni ingenti costi economici e ambientali, sia per le imprese che per il sistema nel suo complesso. È, perciò, necessario sviluppare un’analisi di adeguatezza che consenta di pianificare e realizzare per tempo gli investimenti necessari per superare situazioni di emergenza permanente».

Quello elaborato da Althesys è “solo” l’ultimo e autorevole report a giungere alle stesse conclusioni: sia Assoambiente sia Utilitalia (le associazioni delle imprese di settore) hanno documentato in dettaglio la carenza sul territorio di impianti per la gestione dei rifiuti, che si aggraverà progressivamente nei prossimi anni in assenza di interventi correttivi. Ogni anno l’Italia produce – tra urbani e speciali – oltre 160 milioni di tonnellate di rifiuti, quanto basterebbe per coprire con un metro di spazzatura 60mila campi da calcio.

Anche guardando ai soli rifiuti urbani, ovvero quelli che produciamo ogni giorno nelle nostre case, si arriva (dati 2017) a 29,7 milioni di tonnellate; un dato che rimarrà pressoché stabile nel corso dei prossimi anni. Tenuto conto della previsione di andamento della popolazione (fonte Istat), il Was report stima che la quantità dei rifiuti urbani prodotti varierà tra i 28,4 e i 32,7 milioni di tonnellate al 2035. Ad aumentare progressivamente, per raggiungere gli obiettivi Ue, dovranno invece essere la raccolta differenziata (dal 55,5% del 2017 al 76% nel 2035) e l’avvio a riciclo (dal 42% al 65%), ma anche il recupero energetico (dal 18% al 25%) in modo da ridurre l’impiego della discarica (dal 23% al 10%). Tutto questo senza impianti industriali è impensabile: i rifiuti non spariranno da soli.

Per questo serve il coraggio di realizzare nuovi impianti sul territorio, spiegandone la necessità. Come sottolinea il direttore generale di Ispra Alessandro Bratti «per il superamento della sindrome Nimby sugli impianti è necessario riconquistare la fiducia dei cittadini. È opportuno attivare meccanismi di partecipazione e coinvolgimento», ma soprattutto è necessario che la politica si prenda la responsabilità di decidere: come mostra l’ultimo report dell’Osservatorio Nimby, infatti, nella maggioranza assoluta dei casi (51,6%) sono proprio enti pubblici e politica – forti rispettivamente del 26,3% e 25,4% delle contestazioni – a opporsi a impianti e opere pubbliche, seguendo la logica Nimto (Not in my terms of office, non durante il mio mandato elettorale).

Ma per affrontare in concreto il problema rifiuti e aumentare la qualità di vita dei cittadini gli impianti servono, anche quando sono impopolari. Il rapporto Was evidenzia ad esempio l’esistenza di un deficit nazionale tra la capacità autorizzata per la termovalorizzazione e il fabbisogno al 2035, che varia da poco più di 1 milione di tonnellate a circa 2, dato a cui va aggiunto un deficit di circa 3 milioni di tonnellate dovuto all’invecchiamento degli impianti in caso di mancata sostituzione, per un totale di circa 5,2 milioni di tonnellate. Per la Forsu (la frazione organica dei rifiuti urbani) si delinea invece una situazione diversa, caratterizzata da un’inadeguatezza della distribuzione territoriale degli impianti (presenti soprattutto al nord) piuttosto che da un deficit nazionale, sulla quale è comunque necessario mettere mano.

Risalendo la gerarchia per una corretta gestione dei rifiuti, è inoltre necessario lavorare affinché ai dati relativi all’avvio a riciclo segua davvero un’economia circolare: «L’andamento dei mercati dei recovered material è, in particolare, un elemento chiave che incide sulla sua sostenibilità – si spiega nel rapporto – La crescente volatilità, derivante sia da fattori politico-normativi che da variabili macroeconomiche, ne condiziona infatti gli equilibri, potendo provocare disallineamenti, anche gravi, tra i vari anelli della value chain». Come risultato, oggi di fatto l’economia circolare è ferma al 17,1%: neanche un quinto delle risorse materiali utilizzate nel nostro Paese, infatti – come documenta Eurostat – proviene da prodotti riciclati e materiali di recupero, risparmiando così l’estrazione di materie prime primarie.