Una riforma fiscale verde per il nuovo Governo

Più carbon tax, meno sussidi ambientalmente dannosi e rimodulazione ecologica dell’Iva: dopo 8 anni di “clausole di salvaguardia” è arrivato il momento di allargare l'orizzonte

[20 Agosto 2019]

Dopo le comunicazioni del premier Conte, oggi al Senato, ad aprirsi è una nuova fase d’incertezza: all’esperienza del Governo M5S-Lega è bastato poco più di un anno per avviarsi al tramonto, ma è stato sufficiente per lasciare in eredità alla prossima legge di Bilancio un macigno da 23,1 miliardi di euro. Si tratta del paventato aumento dell’Iva, che il nuovo Governo – chiunque saranno i suoi componenti – dovrà trovare in fretta il modo di affrontare.

È dal 2011 con il Governo Berlusconi (allora insieme alla Lega) che “clausole di salvaguardia” come questa si susseguono di anno in anno – certo mai con importi così alti –, e visto che ancora il problema dell’Iva non è risolto forse aiuterebbe cambiare approccio. E non c’è orizzonte migliore di una riforma fiscale verde per spingere lo sviluppo sostenibile del Paese: gli spunti non mancano.

Sempre nel 2011, come già abbiamo ricordato su queste pagine, l’Agenzia europea dell’ambiente (Eea) nella sua Environmental fiscal reform – Illustrative potential in Italy ha individuato ad esempio un potenziale pari a 25 miliardi di euro tra introduzione di tasse ambientali e rimozione di sussidi impropri, in grado di spingere l’innovazione ambientale come ridurre altre tasse e in primis il costo del lavoro.

Più di recente Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile e già ministro dell’Ambiente, ha proposto una riforma fiscale semplice per il clima e il lavoro: «Da un’altra parte si discute sulla necessità di penalizzare fiscalmente le emissioni di gas serra che stanno generando tanti danni e pericoli e che non dovrebbero essere gratis: senza una qualche forma di carbon tax non pare proprio possibile rispettare l’Accordo di Parigi per il clima. Perché non provare ad affrontare questi due problemi congiuntamente?».

Sempre Ronchi ricorda che il tema è ormai all’attenzione internazionale: «La World bank ha appena pubblicato un Rapporto sull’andamento del carbon pricing a livello mondiale (State and trends of carbon pricing 2019 , Washington DC, June 2019). Da questo rapporto risulta che questi sistemi stanno crescendo e si stanno diffondendo a livello mondiale: nel 2010 le iniziative di carbon pricing erano 19 e riguardavano solo il 4% delle emissioni mondiali di CO2, ad aprile 2019 sono cresciute a ben 57, applicate a circa il 20% delle emissioni mondiali di CO2-28 sono iniziative di Ets (Emission trading system) e 29 di carbon tax- introdotte in 46 nazioni (in alcune nazioni sono in vigore tutte e due). Questi dati documentano che i sistemi di carbon pricing sono stati introdotti a livello nazionale, smentendo lo scetticismo di quanti,specie in Italia, sostenevano la loro praticabilità solo a livello globale: se funzionano in 46 nazioni, e sono in aumento, significa che si possono introdurre anche a livello di singoli Paesi. Il rapporto della World bank ci ricorda che per rispettare il target dell’Accordo di Parigi, e mantenere l’aumento della temperatura al di sotto dei 2°C, il carbon pricing dovrebbe essere pari ad almeno 40-80 $/tCO2 al 2020 e salire almeno a 50-100 $/tCO2 al 2030. Oggi siamo lontani da questi livelli, meno del 5% delle emissioni di gas serra è soggetta ad un carbon pricing in linea con il livello necessario al 2020» e ad oggi in Europa i grandi emettitori pagano attraverso l’Ets circa 28 euro a tonnellata per la CO2.

Che fare dunque? Da una parte la proposta di Ronchi è quella di applicare una carbon tax, inizialmente bassa, anche ai settori non regolati dal sistema Ets europeo, stimando di poterne ricavare «un’entrata aggiuntiva di circa 8 miliardi» di euro; un aggiustamento da introdurre tenendo però di conto – come suggerito dalla stessa World bank – gli impatti sociali del carbon pricing e sulla necessità di forme di graduazione e di compensazione per i redditi bassi, per non cadere nell’errore che ha acceso la miccia dei Gilet gialli in Francia.

Dall’altro lato a suggerire la linea d’intervento è il Catalogo dei sussidi ambientali, recentemente pubblicato dal ministero dell’Ambiente con dati aggiornati al 2017, che mostra come i sussidi vigenti con effetti negativi per l’ambiente ammontano a ben 19,3 miliardi all’anno, dei quali ben 16,8 sono destinati a fonti fossili di energia: recuperandone «almeno 12» e sommandoli agli 8 della carbon tax «avremmo a disposizione ben 20 miliardi, non una tantum, ma permanenti. Con 20 miliardi l’anno si potrebbe ridurre il cuneo fiscale a vantaggio sia dei lavoratori, sia delle imprese – argomenta Ronchi – In questo modo promuoveremmo misure a favore del clima, penalizzando i combustibili fossili, e favoriremmo lo sviluppo degli investimenti delle imprese e dell’occupazione».

È in un contesto di più ampio respiro come questo che, eventualmente, parte delle risorse potrebbero essere indirizzate anche a sterilizzare l’aumento dell’Iva, con la consapevolezza però che limitarsi al compitino non porterebbe nulla allo sviluppo sostenibile del Paese, come mostra la storia degli ultimi otto anni.

L’economista Gustavo Piga, già presidente Consip, sul Sole 24 Ore si spinge a suggerire di «lasciar aumentare l’Iva, guadagnando ben 23 miliardi di risorse che potrebbero essere usate per gli investimenti pubblici in tutto il Paese. L’impatto di questa manovra, chiamata anche del “moltiplicatore in pareggio”, è noto e positivo per la crescita: se è vero che la domanda privata sarebbe in parte depressa dall’aumento delle imposte indirette, l’impatto positivo dei maggiori investimenti pubblici lo sovrasterebbe, sia nel breve che nel medio periodo».

L’economista Tito Boeri, già presidente dell’Inps, oggi su La Repubblica, propone invece una via di mezzo sottolineando comunque che è «forse più saggio, a questo punto, rassegnarsi a un aumento selettivo dell’Iva, riducendo la gamma di beni e servizi soggetti all’aliquota del 4% guardando agli effetti distributivi di questa operazione, e armonizzando le aliquote del 10 e del 22 per cento a un livello intermedio, cosa che sarebbe anche di grande aiuto nella riduzione dell’evasione fiscale. La ragione per cui tutti i partiti sostengono di non volere aumentare l’Iva è che nessuno si vuole intestare un così visibile aumento delle tasse. Ma l’impegno a non aumentare le tasse non significa rinunciare a cambiare la composizione del prelievo fiscale che in Italia grava troppo sul lavoro. Un aumento selettivo e ben congegnato dell’Iva aprirebbe lo spazio per riduzioni delle tasse sul lavoro con benefici importanti per la crescita del nostro Paese. Bene ricordarsi che proprio una riduzione della pressione fiscale sul lavoro, abbinata a un aumento dell’Iva è stata la chiave del ritorno alla crescita della Germania agli inizi del nuovo millennio. Allora era la Germania il grande malato d’Europa. Oggi siamo noi a vantare questo triste primato».

E anche in questo caso, come suggerito ormai da anni su queste pagine, una riforma fiscale verde offrirebbe la bussola ideale per dare un senso all’aumento selettivo dell’Iva, tenendo conto degli impatti ecologici dei vari beni e servizi soggetti a tassazione: qualche esempio? Iva agevolata per prodotti che contengono una quota minima di riciclato, in modo da rendere competitivo il costo tra questi ultimi rispetto ai prodotti realizzati esclusivamente con materiale vergine.