Blitz di Goletta Verde a Gela: la svolta verde del polo industriale Eni ha ben poco di sostenibile

Bonifiche a rilento e una bioraffineria con olio di palma. Intanto in Sicilia continua la corsa all’oro nero, con canoni di concessione irrisori

[23 Luglio 2019]

Nonostante dal 2016 Eni abbia iniziato a riconvertire il polo petrolchimico di Gela in una bioraffineria secondo Legambiente, che con Goletta verde ha fatto oggi tappa in Sicilia, il presente dell’area continua ad essere ancora poco green e sostenibile. Per quanto riguarda la riconversione avviata nella raffineria di Gela Eni sta sbagliando in modo evidente – commenta Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – visto che punta sull’olio di palma da importazione che non fa bene all’ambiente. A quando l’annuncio della profonda riconversione del business di Eni dalle fossili alle rinnovabili?». Non si tratta di un problema soltanto siciliano: un recente studio mostra che dal 2010 al 2018 le spese in conto capitale stanziate da Eni per investimenti low-carbon si assestano sullo 0,10%, lontanissime anche rispetto a quelle di altri giganti tutt’altro che “verdi” dell’oil&gas come Total (4,3%), Bp (2,3%) o Shell (1,33%).

L’associazione ambientalista chiede dunque a Eni un cambiamento concreto, abbandonando del tutto la strada delle fonti fossili e ricordando in particolare che già «l’Accordo su Gela firmato nel 2014 prevedeva 2,2 miliardi di euro di investimenti, di cui 1,8 miliardi per le attività di estrazione di idrocarburi dal Canale di Sicilia e solo 400 milioni di euro per le attività di bonifica e riconversione dell’impianto».

Più nel dettaglio, l’urgente necessità di bonifiche è resa evidente dall’ultimo aggiornamento dello studio epidemiologico Sentieri (dati 2006-2013 per mortalità e ricoveri e 2010-2015 per malformazioni congenite), che confrontando Gela con la media regionale mostra una mortalità in eccesso del 7% tra gli uomini e del 15% tra le donne (cioè 54 decessi prematuri in più ogni anno) e un +15% per i tumori negli uomini e +13% per le donne.

Per quanto riguarda invece più nello specifico la riconversione del petrolchimico in un’ottica di bioraffineria il problema sta ancora una volta nella materia prima scelta per diventare carburante “bio”, ovvero l’olio di palma: per soddisfare la sete europea di olio di palma, milioni di ettari di foresta pluviale sono stati distrutti negli ultimi anni per permettere l’espansione delle piantagioni di palme da olio, mettendo in pericolo anche gli oranghi delle foreste del Borneo (Indonesia e Malesia) e le popolazioni indigene. «Non dimentichiamo che oggi – aggiunge Ciafani – si possono produrre biocarburanti avanzati che sostituiscono l’olio di palma, riciclando scarti in un’ottica di economia circolare. In attesa di un cambio di passo di Eni, auspichiamo che nel Piano energia e clima venga prevista una drastica riduzione delle importazioni di olio di palma per usi energetici seguendo l’esempio di Francia e Norvegia che hanno già annunciato di volerlo eliminare entro il 2020».

Se dal Governo al momento non giungono segnali di questo tipo è però giusto sottolineare che l’Eni proprio a Gela negli ultimi mesi ha completato un impianto pilota per estrarre biocarburanti da rifiuti organici,  a marzo di quest’anno un protocollo di intesa siglato tra Syndial (Eni) e Veritas punta a sviluppare questa linea di business a Porto Marghera e anche a Livorno è in piedi un progetto simile. Si tratta di primi segnali incoraggianti nell’ottica di un’economia circolare, ma è evidente che è necessario fare molto di più.

Anche perché nel mentre trivelle e fonti fossili rimangono il core business di Eni, oltretutto con scarsi ritorni per il territorio locale come mostra il caso siciliano. Secondo i dati raccolti da Legambiente la produzione di petrolio dai giacimenti ubicati in Sicilia rappresenta circa il 13,4% della produzione nazionale, grazie alle 628 mila tonnellate (rispettivamente  415 mila tonnellate sulla terra ferma e 212 mila tonnellate in mare) estratte nel 2018: a spartirsi le concessioni siciliane sono 3 società, Eni Mediterranea Idrocarburi che detiene 5 concessioni in esclusiva e una insieme a Edison e Irminio.

Sul territorio siciliano ricadono anche 11 permessi di ricerca, sospesi dal 13/2/2019 fino all’adozione del Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (PiTESAI) e comunque per un periodo non superiore a 24 mesi (Legge 11 febbraio 2019 n. 12, art. 11-ter, commi 6-8). Oltre a questi permessi già rilasciati sono 14 le istanze di permesso di ricerca presentate dalle diverse compagnie. In cambio di cosa?

Dal 2010 al 2018 le concessioni produttive di greggio in Sicilia hanno estratto in totale circa 8,5 milioni di tonnellate di greggio di cui 2 milioni (23,8%) sono risultate esenti dal pagamento delle royalty (soglia di esenzione 50.000 tonnellate per concessioni in mare e 20.000 tonnellate per quelle a terra); sempre per lo stesso periodo, le concessioni produttive di gas hanno estratto in totale 2.434 milioni di Smc, di cui 1.537 (il 63,1%) sono risultati esenti dal pagamento delle royalty (soglia di esenzione 25 milioni per concessioni a terra e 80 milioni per quelle a mare).

Infine, un altro tema caldo che coinvolge il tema delle estrazioni petrolifere è quello del costo dei canoni di concessione sui quali il Governo è intervenuto, nel Decreto Semplificazioni, aumentandoli di 25 volte. Ma se li confrontiamo con quelli di diversi paesi europei – dove sono di tutt’altro spessore –l’aumento registrato in Italia appare irrisorio. Infatti, si passa da 2,58 euro/kmq a 64,5 euro/kmq per i permessi di prospezione, da 5,16 euro/kmq a 129 euro/kmq per i permessi di ricerca e da 41 euro/kmq a 1.033 euro/kmq per le concessioni di coltivazioni. La proposta di canoni fatta da Legambiente, tiene conto della media degli altri Paesi europei, dove il costo dei canoni di concessioni è di altro livello. Ad esempio in Danimarca il permesso di ricerca ha un costo di 3.300 euro/kmq. In Norvegia si arriva a 8.150 euro/kmq e a 13.620 euro/kmq per la coltivazione. Per questo per Legambiente se si aggiornassero i canoni con cifre più adeguate, ad esempio in linea con quelli di altri Paesi europei, le compagnie petrolifere per le estrazioni 2018 in Sicilia, verserebbero per prospezione, ricerca e coltivazione circa 32,9 milioni di euro a fronte dei soli 2,7 milioni di euro che verseranno nel Gettito 2019, stando ai nuovi importi. Ovvero circa 30 milioni di mancate entrate.