Burundi, è cominciato un nuovo genocidio?

Il regime di Nkurunziza scatena la caccia agli oppositori. Si organizza l’opposizione armata?

[5 Novembre 2015]

Il 3 novembre  il presidente del Burundi, Pierre Nkurunziza, ha rivolto un messaggio alla Nazione in Kirundu, la lingua nazionale,   che altro non era che un ultimatum di 5 giorni ai suoi concittadini insorti dopo il referendum e le elezioni farsa che lo hanno confermato per la terza volta come capo del piccolo Stato africano.  Nkurunziza ha tuttavia cercato di rassicurare con tono paterno gli eventuali pentiti: «Voi sareste accolti dalle forze dell’ordine, dove apprenderete ad amare il vostro Paese per due settimane, poi sarete rinviati tra i vostri parenti». Poi, insieme a questi pentiti rieducati, Nkurunziza e la sua cricca organizzeranno un dialogo nazionale. Come scrive Le Pays, «Ci si sorprende a leggere la parabola del figliol prodigo della Bibbia. La predica è certo fatta da un pastore, ma un pastore che nasconde un’arma tra le pagine della Bibbia. Il messaggio non è per niente nuovo e conferma bene l’impostazione originale di Nkurunziza, che fa sempre rima con impostura. Parandosi dietro una legittimità acquisita dono la svolta di una rapina elettorale, pretende di assolvere i suoi concittadini insorti dal loro “forfait”, quello di essere dei  “criminali armati”».

Nkurunziza alterna il bastone e la carota, tra promesse di amnistia e minacce esplicite, ma la carota è solo verbale, mentre il bastone colpisce spietatamente i suoi detrattori. Parla di forze del male al lavoro, ma sono proprio quelle che lui ha scatenato per saziare la sua bulimia di potere. L’appello al dialogo sembra solo un contentino per la comunità internazionale che sembra avere altro da fare che stare a vedere cosa succede in un minuscolo Stato nel cuore dell’Africa, ma che gli fa pressione perché organizzi un summit nazionale con tutti gli oppositori. Ma intanto Nkurunziza ha già escluso dal possibile dialogo l’opposizione in esilio.

I rischi di questo atteggiamento sono enormi: «Violando gli accordi di Arusha – spiega RFI – ha rimesso unilateralmente in causa il consenso che aveva addormentato il vulcano burundese dalle eruzioni apocalittiche. E per parafrasare Ahmadou Kourouma, il cane non cambierà mai il suo modo di sedersi, c’è davvero da scommettere che il satrapo non cambierà».

Ci vuole poco a capire che l’appello  di Nkurunziza è una trappola e che se l’opposizione lo accettasse segnerebbe la sua condanna a morte, facendo allo stesso tempo uscire il residente del Buundi dal suo crescente isolamento internazionale e bloccando le sanzioni contro il governo che stanno aumentando ogni giorno di più.

Il problema è che la politica criminale di  Nkurunziza ha ritrascinato il Burundi in un ciclo di violenza dal quale rischia di non poter uscire, come dimostrano gli omicidi politici e le aggressioni contro gli oppositori che si susseguono. All’opposizione si chiede di sottoscrivere un patto con il diavolo che le alienerebbe ogni simpatia da parte dei democratici africani e della comunità internazionale che sostengono la lotta del popolo burundese.

Ma secondo Eric Topona, il corrispondete di  Deursche Welle da Bujumbura «In Burundi, il presidente Pierre Nkurunziza tenta disperatamente di controllare la situazione, di fronte ad un’insicurezza crescente. Mente evoca sempre più l’ipotesi di una ribellione in gestazione nel Paese». Ma Pascal Niyonizigiye, esperto di relazioni internazionali dell’università di Bujumbura, dice che «Il potere non ha più soldi, è isolato. E’ per questo che Pierre Nkurunziza ha perso la testa».

La gente ha paura e sta scappando dai quartieri della capitale dove l’opposizione è più forte per sfuggire alle squadracce del regime. Ma a Bujumbura ormai sono rimasti pochi giornalisti stranieri e i pochi giornalisti indipendenti locali sono quasi tutti fuggiti all’estero, mentre una feroce repressione si abbatte su chiunque sia sospettato di criticare Nkurunziza. Ma su What’s App o Facebook circolano le foto di  corpi insanguinati di oppositori abbandonati per strada o davanti alle loro case. A ottobre un cameraman della TV nazionale è stato massacrato dalla polizia  insieme a sua moglie e ai suoi due figli. Un liceale di Cibitoke è stato arrestato dalla polizia a scuola e poi è stato trovato morto il giorno dopo.

Il Burundi, un piccolo paradiso tropicale di alte montagne e colline che scendono verso l’immenso lago Tanganika,  da sei mesi è nuovamente diventato un inferno di violenza e David Gakunzi, un intellettuale burundese che vive in esilio in Francia, ha detto a Radio France International: «Ogni nuova dichiarazione del presidente fa temere un nuovo massacro».

Dopo il fallito golpe che ha cercato di impedire la sua terza rielezione, Nkurunziza sembra in preda ad un delirio di onnipotenza ed è convinto che Dio lo abbia scelto per governare il Burundi. La sua paranoia è aumentata dopo che il 31 ottobre c’è stato uno scontro tra un gruppo armato e la polizia a 13 km da  Bujumbura. Sporadici c scambi di colpi di armi da fuoco c’erano stati anche negli ultimi mesi, ma mai così vicini alla capitale. Il clan di Nkurunziza teme che si stia formando un esercito di guerriglieri.

E l’opposizione armata starebbe davvero organizzandosi  lontano dalla Capitale: il 2 novembre un gruppo di miliziani non identificato avrebbe attaccato le forze di sicurezza. Questo gruppo armato ha fatto la sua comparsa per la prima volta nella Commune di Nyabihanga nella provincia di Mwaro, attaccando di notte. Poi si è ritirato nella provincia di Gitega, nel centro del Paese, una delle raccaforti del regime, dove ha attaccato la polizia nella Commune di Nyarusange, per poi dirigersi verso Ryansoro, dove ha affrontato le forze fedeli a Nkurunziza in una zona vicina al fiume Ruvyironza. I ribelli avrebbero subito diverse perdite e 26 di loro sarebbero stati fatti prigionieri. Ma si tratta di informazioni impossibili da verifcare, come tutte quelle che vengono dal governo.

Il regime dice che avrebbe praticamente annientato un gruppetto di insorti  composto da 30 – 50 elementi male armati, subendo poche perdite. Ma gli abitanti delle zone dove sono avvenuti gli scontri dicono che erano più di 200 uomini bene armati e che hanno inflitto pesanti perdite ai filio- Nkurunziza.

Il Burundi potrebbe precipitare ancora una volta in una lunga guerra civile a forte connotazione etnica e Gakunzi avverte: «Non inganniamoci: quello che sta succedendo in questo momento in Burundi è l’inizio di un genocidio». Fin dall’inizio della crisi, il regime ha cercato di rinfocolare l’odio etnico tra Hutu et Tutsi, all’inizio senza successo, ma poi la cricca di Nkurunziza  è riuscita a mettere in piedi bande di giovani Hutu (l’etnia del presidente) privi di prospettive dopo che il clan al potere si è appropriato di ogni ricchezza del Paese.

Lo schema è quello delle squadracce “proletarie” fasciste al servizio del potere: la repressione prende di mira i “nemici interni”, sia che siano Tutsi o  Hutu “traditori”. «Nkurunziza testa le reazioni della comunità internazionale – spiega Gakunzi  –  Non annuncia massacro su larga scala, ma conduce delle azioni mirate, che sono meno visibili, meno scioccanti». Ma il primo novembre Reverien Ndirukiyo, il presidente del Senato fedelissimo di Nkurunziza,  potrebbe aver dato il via al nuovo genocidio di massa con un discorso rivolto ai dirigenti del Comune di Bujumbura, destinato a restare riservato ma che è stato registrato da alcuni lavoratori con i loro smartphone. Rivolgendosi a “capi quartiere” Ndirukiyo ha rivelato un progetto mostruoso: «Se avete compreso  il segnale, è come una consegna di quel che deve finire, le emozioni e le lacrime non avranno più spazio. Aspettate: il giorno in cui vi diremo “lavorate”, vedrete la differenza! I poliziotti attualmente nascondono al riparo le granate, ma vedrete la differenza il giorno che riceveranno il messaggio di lavorare», poi il presidente del Senato ha invitato i capi quartiere a «Identificare gli elementi che non sono in ordine, prima che la polizia passi all’azione».

La cosa inquietante è che l’identificazione dei gruppi di popolazione «à risques» e soprattutto il termine  «travailler» (lavorare) sono le stesse parole utilizzate dai miliziani Hutu del Rwanda quando hanno dato il via al genocidio del 1994 che ha avuto sanguinosi strascichi anche in Burundi. Travailler, vuol dire semplicemente uccidere, o anche «pulvériser» (polverizzare), come ha detto Ndirukiyo.

Ma il genocidio del 1994, frutto della disattenzione e della complicità dell’Occidente, è una ferita ancora aperta e Nkurunziza sembra sempre più isolato: Belgio, Olanda e Germania hanno interrotto una parte della loro cooperazione col Burundi, Barack Obama ha tolto al Burundi lo status di partner commercial privilegiato a causa della  «repressione dell’opposizione, degli assassinii extragiudiziari e degli arresti arbitrari». Il 2 novembre l’Unione europea ha accusato il regime di Nkurunziza di attentare alla democrazia… Ma intanto la gente di Bujumbura vive nel terrore e nell’attesa di nuovi omicidi.

La diplomazia occidentale sembra troppo lenta per poter fermare la spirale della violenza estremista di un regime che non ha più niente da perdere. Il 3 novembre un sostenitore del regime  ha postato su Facebook la foto di un machete con la scritta in kirundi : «Le elezioni sono finite ora resta solo di passare al lavoro».