Ecuador gli indios e gli operai invadono Quito e il Presidente sposta la capitale a Guayaquil

Lenín Moreno accusa Correa e il Venezuela di voler fare un golpe

[9 Ottobre 2019]

Oggi a Quito, la capitale dell’Ecuador, è il settimo giorno di sciopero contro il “paquetazo” le misure concordate dal presidente della Repubblica Lenín Moreno con il Fondo monetario internazionale. Ma già ieri il Paese è stato percorso da cortei di indios che si dirigevano verso la capitale gridando «Arriba el Paro!», «Fuera Moreno y sus medidas!» e «De aquí nos nos vamos!», avanzando verso Palacio de Carondelet, la residenza ufficiale del Presidente che però non ha più il suo inquilino, visto che Moreno, applicando lo stato di emergenza decretato il 3 ottobre, ha spostato la sede del governo, e quindi la capitale, a Guayaquil, nel sud-est del Paese, giustificando così questa clamorosa mossa: «Mi sono trasferito nella città di Guayaquil e ho trasferito la sede del governo in questa bella città, secondo le attribuzioni costituzionali che mi competono». Ma anche a Guayaquil Moreno non sembra ospite gradito: appresa la notizia del trasferimento del governo, a sindaca della città. Cynthia Viteri, ha scritto su Twitter che il “paquetazo” di Moreno è «Un serpente nel paniere delle mele. Le misure economiche prese dal governo centrale sono riassunte in una: hanno aumentato il pedaggio del trasporto pubblico e delle merci, quindi il costo della vita. Hanno nascosto il serpente in un paniere di mele. Sono i lavoratori, la classe media e i poveri che pagheranno di più per spostarsi».

Mentre l’Ecuador popolare è in piazza e si scontra con polizia ed esercito Moreno ha affermato di aver «Anteposto la pace e la tranquillità degli equadoregni al mio proprio benessere. I saccheggi, il vandalismo e la violenza dimostrano che qui c’è una intenzione politica organizzata per destabilizzare il governo e distruggere l’ordine costituito, rompere l’ordine democratico». Poi Moreno si è spiegato meglio: la rivolta popolare in atto in Ecuador sarebbe il frutto di un complotto dell’ex presidente socialista Rafael Correa (del quale Moreno è stato vicepresidente e dal quale è stato candidato alla presidenza della Repubblica) e dal presidente del Venezuela , Nicolás Maduro.

Moreno, che prima della sua recente svolta liberista e filo-statunitense era stato uno strenuo sostenitore del socialismo bolivarista/petrolifero venezuelano di Hugo Chavez, ora dice che «Il satrapo Maduro ha attivato, insieme a Correa, il suo piano di destabilizzazione. Si tratta di atti di corrotti ed evasori della giustizia. Sono loro che stanno dietro questo tentativo di colpo di Stato. Le persone che incitano alla violenza sono individui esterni pagati e organizzati«. Poi ha accusato di far parte del complotto contro di lui anche l’ex ministro degli esteri dell’Ecuador Ricardo Patiño (sul quale pende un mandato di cattura) aveva accusato di essere un «Impostore professionista. Per dieci anni ha elogiato il governo che avevamo, di cui è stato vicepresidente. Era arrivato a definire Rafael Correa come il miglior presidente del mondo. Ormai è prigioniero della Cia. Tutto ciò che sta facendo, cercando di distruggere completamente ciò che avevamo costruito, non c’è dubbio che sia stato programmato con la CIA perché non ha l’intelligenza, la testa per mettere insieme una cosa di questa natura, se non sia qualcosa organizzato dall’ambasciata americana, L’ambasciatore americano in Ecuador, Todd C. Chapman, è ora il principale visitatore del governo di Moreno, con il quale si incontra frequentemente, essendo l’ospite di tutti gli incontri. Al contrario, durante la legislatura di Correa, questa figura diplomatica si limitava ad adempiere ai suoi doveri e non avrebbe dato ordini al governo nazionale su ciò che doveva fare».

A Moreno ha risposto anche Correa con un’intervista alla Tv internazionale russa RT, e secondo lui le parole del presidente «Sono la dimostrazione dell’alienazione di Moreno e di tutto il suo governo. Mi incolpano costantemente della cattiva gestione economica, della crescita dell’insicurezza e dell’insuccesso di tutte le loro politiche. Ma nessuno può credere alle affermazioni di Moreno, perché il suo comportamento è davvero folle. Dice che siamo golpisti e che vogliamo destabilizzare il governo. I golpisti sono stati loro che hanno violato la Costituzione ogni volta che hanno voluto. Non gli interessa la democrazia, gli interessa continuare a controllare il potere a tenere sotto controllo il popolo equadoregno per poter applicare le loro politiche che danneggiano la grande maggioranza ma però vanno a beneficio dei loro affari. Sono loro quelli che rubano la democrazia».

Secondo Correa c’è una via di uscita costituzionale: «Anticipare le elezioni e che il popolo voti. In democrazia i conflitti si risolvono così. Nelle urne». Poi Correa ha accusato i media governativi di comportarsi in modo vergognoso: «E’ osceno come occultano la repressione, Il Paese subisce una tremenda commozione e loro continuano a trasmettere telenovelas e cartoni animati».

Correa, che è un economista e che è stato anche ministro delle finanze dell’Ecuador, ha accusato il governo Moreno di mentire riguardo alle dimensioni del debito del Paese per giustificare il patto con l’FMI «che ha dato il via alle controverse misure che cercano di imporre alla popolazione, che non era necessario. E’ pura storia: sin dall’inizio hanno tradito il programma economico per cercare di imporre il neoliberismo e quindi contentare i gruppi di potere che sostengono Moreno. Questi gruppi vogliono il neoliberismo, del “si salvi chi può” e vogliono minimizzano lo Stato. L’Ecuador non era più stato sottoposto a misure economiche così severe per 14 anni».

Ma quella in atto in Ecuador sembra potersi trasformare da protesta in rivoluzione (e qualcuno teme in un golpe militare), visto che gli indios che marciano su Quito combattono contro l’estrattivismo e le concessioni petrolifere nei loro territori a inalberano cartelli con su scritto “Né Moreno né Correa, facciamo da soli” e che, insieme a studenti e lavoratori urbani, si scontrano da giorni con polizia ed esercito, trasformando la capitale in un campo di battaglia per tentare di accedere al centro storico e ai palazzi del potere abbandonati da Moreno, in un tragico 8 ottobre che ricorda tanto l’8 settembre italiano della vergogna monarchica e fascista.

Oggi la Confederación de Nacionalidades Indígenas de Ecuador (Conaire) e il Frente Unitario de Trabajadores (FUT) hanno convocato uno sciopero a tempo indefinito, con concentrazione a Quito, e Moreno, dopo aver ringraziato le forze armate e di polizia, ha annunciato: «Eviteremo sempre qualsiasi spargimento di sangue». Ma di sangue ne è già stato sparso e molto è di giovani. I manifestanti dicono che ci sono stati almeno 4 morti in tutto il Paese, mentre le autorità parlano di un morto e di decine di feriti tra manifestanti e forze dell’ordine, di circa 500 arresti, la maggioranza per vandalismo. Il morto di Quito è un ragazzo che, secondo l’opposizione, sarebbe finito giù da un ponte durante una carica della polizia a un gruppo di manifestanti».

Di fronte a tutto questo, Moreno non ha trovato di meglio che dire: «Non farò marcia indietro, perché fare la cosa giusta non ha sfumature. L’eliminazione dei sussidi ai carburanti (la scintilla che ha fatto scoppiare le proteste, ndr), è una decisione storica che colpisce i contrabbandieri per centinaia di milioni di dollari. Vi assicuro che, per quanto possa sembrare difficile, abbiamo fatto la cosa giusta. Questa decisione proteggerà la salute dell’economia e della dollarizzazione. Abbiamo compiuto il primo passo verso la fine del taglio delle risorse statali».

Moreno sembra poco convincente e cominciano ad abbandonarlo anche i suoi alleati, come Carlos Yaku Perez, prefetto della provincia di Azuay e del Movimiento de Unidad Plurinacional Pachakutik che, dopo aver appoggiato il referendum proposto da Moreno è stato tra chi ha convocato le manifestazioni contro il “paquetazo”. A difendere Moreno restano il FMI e importanti settori imprenditoriali, importatori e mondo della finanza, ma sono un’infima minoranza in un Paese povero e ancora in gran parte rurale e Moreno dovrebbe sapere bene che l’arrivo degli indios in massa a Quito è sempre terminato con le dimissioni o la fuga dei presidenti in carica. Glielo ricorda anche il giornalista e scrittore argentino Carlos Aznarez, direttore di Resumen Latinoamericano e coordinatore di Cátedras Bolivarianas, che scrive su su TeleSur in un articolo intitolatoEcuador: Lenin contra Lenin”: «Il popolo ecuadoregno è un osso duro da rosicchiare. Per cose come quelle che stanno accadendo oggi, ha già rovesciato diversi governanti, altrettanto corrotti e criminali come il già citato Moreno. L’ultimo di questi è stato Lucio Gutiérrez che perse, sottomettendosi all’impero e ai suoi dettati, la possibilità di condurre una Revolución obrero-indígena y campesina, e terminò bruscamente la sua amministrazione, come leccapiedi della borghesia, in mezzo a una grande rivolta popolare che provocò la sua fuga sui tetti del Palacio de Gobierno, da dove decollò per sempre, salendo su un elicottero. E’ qualcosa che Moreno deve aver sicuramente avuto in mente, quando ha deciso bruscamente di spostare la sede del governo de Quito a Guayaquil, di fronte al caldo dell’avanzata dei manifestanti che avevano cominciato a circondare Palacio de Corondelet».

La protesta urbana contro quello che – fin dal nome di battesimo – dovrebbe essere un presidente di sinistra vede protagonisti gruppi di sinistra, sindacalisti e giovani che aderiscono a diversi partito e movimenti di opposizione ai quali ora si sommano migliaia di indios e tutti insieme hanno trasformato il parco di El Arbolito, vicino alla Casa de la Cultura nella roccaforte dei gruppi di protesta, ignorando completamente lo stato di emergenza decretato da Moreno che la Corte Costituzionale dell’Ecuador ha subito ridotto a 30 giorni. Intanto, secondo il Servicio Integrado de Seguridad ECU 911, martedì lo sciopero aveva bloccato completamente 17 strade in 24 provincie e tutte le scuole del paese sono chiuse da una settimana.

Aznarez conclude: «La rivolta popolare e la conseguente marcia indigena-campesina hanno generato una corrente di simpatia in tutti i villaggi che sta attraversando. E’ così che anche i più timidi o non impegnati scendono in piazza per dimostrare di essere disposti a essere protagonisti di questo momento storico. Lo fanno con la gioia che deriva dall’unirsi ai loro simili, urlano in coro gli slogan del momento, dimostrandosi l’un l’altro che “el pueblo unido jamás será vencido”. Ma anche, con abbastanza rabbia da essere convinti che è ora di farla finita con quei politici che sostengono una democrazia borghese con la quale li ingannano ogni quattro o cinque anni. Per questo non è strano che, almeno gli indigeni della Conaie e gli operai della FUT aggiungano ai loro slogan il ​​noto “que se vayan todos”. Perché accada davvero, dobbiamo avere alternative che non conducano una eventuale vittoria in un vicolo cieco, dove ci sono altri che non rappresentano i loro interessi – come è successo tante volte – lucrando su molte lotte e sacrifici, o mettendo sul tavolo la perdita di libertà e persino la morte per repressione. Questi e altri problemi simili, è ciò di cui ora, probabilmente, staranno discutendo i leader di questa gigantesca rivolta popolare».