Libia, l’Italia tra migrazioni e petrolio senza una politica di lungo periodo

Ci si illude di avere arginato il fenomeno migratorio come se fosse qualcosa che si elimina per sempre ponendo recinti

[6 Febbraio 2019]

Vi ricordate la stretta di mano tra Fayez al-Sarraj e Khalifa Haftar con il premier Giuseppe Conte che le stringeva tra le sue a suggellare una perenne intesa tra i due maggiori contendenti libici, a conclusione della conferenza di Palermo del novembre 2018? Tutta commedia a favore di fotografi e telecamere. L’Italia sembrava mettersi a capo di un processo di unificazione e stabilizzazione della Libia che è stato negato dai fatti. Già nella settimana immediatamente dopo la conferenza la “Settima Brigata” di Tarhuna, una delle milizie libiche, ha tentato di nuovo di prendere la vecchia capitale, perché i rappresentanti di questa milizia non erano stati invitati alla conferenza.

Il problema principale è che il cosiddetto Governo di accordo nazionale di Tripoli, guidato da al-Sarraj, non è affatto di accordo nazionale, ma sta lì perché voluto dall’Onu, appoggiato da varie potenze estere – compresa l’Italia, dato che nell’area stanno le maggiori strutture di Eni – e soprattutto non dispone di una sua forza armata, ma si appoggia sulle 4 principali milizie di Tripoli che nel mese di gennaio hanno ripreso a scontrarsi. Dall’altra parte Haftar, che ha il suo potere nella parte est del paese, la Cirenaica, ha portato le sue truppe nell’area meridionale della Libia, il Fezzan, quella meno abitata e in genere soggetta al potere delle tribù, con l’aiuto, pare, dei francesi che avrebbero inviato qualche aereo a dare man forte alle truppe di terra.

In questo clima di incertezza che rende difficili i controlli da parte della guardia costiera libica agli ordini, si fa per dire, di al-Sarraj, sono riprese le partenze dei barconi anche con clima sfavorevole, col naufragio e la morte di 117 migranti il 18 gennaio. Ma il fenomeno migratorio, bloccato ufficialmente dall’Italia, prende altre strade più facili come la via della Spagna ma anche quella degli sbarchi fantasma: piccole imbarcazioni che raggiungono autonomamente le coste italiane, come i 42 sbarcati a Trapani il 27 dicembre e 10 a Marsala il giorno successivo, per un totale di circa 6mila nel 2018, secondo il ministero dell’Interno.

Con i soli 155 migranti sbarcati ufficialmente nel gennaio 2019 ci si illude di avere arginato il fenomeno migratorio come se fosse qualcosa che si elimina per sempre ponendo recinti che invece possono resistere per poco, e quando la pressione è debole. Il problema sta tutto nei numeri. al-Sarraj ha dichiarato in una sua recente visita a Vienna che in Libia ci sarebbero 800mila migranti irregolari, mentre la popolazione africana, attualmente di 1,2 miliardi secondo le stime dell’Onu, dovrebbe più che raddoppiare di qui al 2050, con un incremento medio di 40 milioni l’anno. Cosa succederà? Le porte chiuse creano maggior accumulo di tensioni. Come terremoti e valanghe, le migrazioni sono fenomeni non lineari che possono rimanere latenti e poi scatenarsi dal nulla in presenza di uno stato critico.

Certo, la politica delle porte aperte finisce per legarsi a più immigrazione perché l’arrivo è reso più facile, ma pensare che sia solo la facilità dell’arrivo a favorire la migrazione è un errore. «Meglio morire che tornare in Libia», dicevano i sopravvissuti al naufragio di gennaio. In altre parole la spinta a partire può essere talmente forte da sfidare qualsiasi impedimento all’arrivo.

Quindi se la volontà è quella di diminuire tale spinta occorre un posizionamento politico lungimirante e alleanze internazionali giuste. Mentre sembra che accada tutto il contrario. L’Italia si isola in Europa e dopo la conferenza di Palermo si sono scatenati gli attacchi alla Francia, nostro tradizionale alleato. L’Italia gestisce la politica estera come un’appendice di quella interna, come se le diatribe sui social di Matteo Salvini e Luigi Di Maio avessero qualche effetto sul panorama mondiale. Il premier Conte cerca di mediare, senza alcun successo, tra le fazioni libiche in lotta, come in Italia cerca di fare tra i due soci di Governo, mentre in Libia la politica estera spicciola di alleanza con le varie milizie locali è affidata alle strutture di Eni. Una politica dell’ordine sparso che funzionava con la copertura americana, ma ora che gli Usa si sono ritirati dal Mediterraneo mostra tutto il suo affanno.

Il problema è quindi il ruolo che l’Italia vuole avere in Africa. Se critica la Francia per il suo supposto neo-colonialismo dovrà chiarirsi le idee sulla presenza di Eni in Africa, oppure tradurre questa presenza in un grande fattore di sviluppo regionale per agire sulla cultura e sulla vicinanza dei modelli culturali, nell’ottica di uno sviluppo integrato e non solo per la convenienza di estrarre petrolio o di bloccare i flussi migratori. Anche perché la natalità diminuisce con l’incremento della ricchezza e questa è la sola nostra speranza di evitare una immigrazione di massa.