Sudan: la rivolta del pane contro la dittatura di al-Bashir

Decine di morti e più di 800 arresti nelle proteste contro la cricca islamista di Khartoum

[8 Gennaio 2019]

Secondo il ministro degli interni del Sudan, Ahmed Bilal Osmane, dal 19 dicembre 2018, quando sono iniziate le proteste contro il rincaro del pane e di altri generi di prima necessità, sono stati arrestati almeno 816 manifestanti e 19 sono rimasti uccisi (ma Amnesty International dice che i morti sono almeno 37 e per l’opposizione sarebbero minimo 45 ) in quella che è ormai diventata una vera rivolta contro l’eterno regime islamista del generale Omar al Bashir.  Una crisi che l’Italia farebbe bene a seguire da vicino, visto che dal Sudan vengono o passano molti dei migranti che sono il chiodo fisso del nostro governo.

Nella sua relazione al Parlamento Ahmed Bilal Osmane ha detto che le manifestazioni sono iniziate pacificamente ma poi dei “provocatori” si sono dati al saccheggio e al furto, ma ornai la situazione sarebbe «calma e stabile», anche se durante le manifestazioni sono stati distrutti ben 118 edifici, tra i quali 18 caserme della polizia, in diverse città del Paese, compresa Khartoum. I manifestanti hanno anche dato fuoco a 94 veicoli, tra i quali 15 appartenenti a organizzazioni internazionali.

Lo scontro che ha dato il via alla rivolta vera e propria è avvenuto il 6 dicembre, quando un gruppo di manifestanti ha cercato di marciare sul palazzo presidenziale e la polizia li ha dispersi sparando lacrimogeni ad altezza d’uomo.

«Il popolo vuole la caduta del regime», dicono in molti. Infatti, tra gli edifici e gli uffici dati alle fiamme dai manifestanti ci sono soprattutto le sedi del National congress party (Ncp) di el-Béchir, che ha preso il potere con un colpo di stato militare nel 1989 e che non lo ha più mollato, facendosi rieleggere in elezioni spesso farsesche.

Tra gli arrestati dall’onnipresente e onnipresente National Intelligence and Security Service (Niss) ci sono molti leader e militanti dell’opposizione e giornalisti  come l’italiana italiana Antonella Napoli, collaboratrice del Fatto Quotidiano e di Lef  e fondatrice di Italians for Darfur, poi rilasciata dopo essere stata costretta a cancellare le immagini delle proteste che aveva girato.

Dopo l’indipendenza del Sud Sudan nel 2011, il Sudan ha perso i tre quarti delle sue riserve petrolifere e l’inflazione è arrivata a circa il 70% all’anno, innescando una grave crisi monetaria. Non è aumentato solo il pane: il prezzo dei medicinali – già proibitivo per i poveri – e raddoppiato e in diverse città oltre al pane manca il carburante.

Ormai la rivolta tocca anche le classi medio-alte: un centinaio di docenti universitari che volevano unirsi alle proteste antigovernative sono stati sequestrati dalla polizia dentro l’università di Khartoum e 8 sono stati arrestati e mentre Osmane assicura che tutto era tornato al suo posto, sabato per le strade della capitale la polizia sparava lacrimogeni sui manifestanti che marciavano al grido di “Bashir dimettiti” durante una manifestazione convocata dall’associazione dei professionisti sudanesi, che raggruppa dottori, insegnanti e ingegneri. Secondo gli oppositori, la polizia non permette ormai nemmeno riunioni di 10 persone. Altre grandi manifestazioni anti-Bashir si sono  tenute a  Madani, a sud est della capitale, dove i manifestanti chiedevano «pace, giustizia e libertà» e nuovamente ad Atbar, nel nord del Paese, dove c’è stata la prima rivolta per il pane a dicembre.

L’opposizione chiede lo scioglimento del governo e la nomina di un esecutivo di transizione che organizzi le elezioni per mandare a casa al Bashir e la sua cricca di generali e politici cleptomani e guerrafondai.

Il 31 dicembre  è stata formata una “commissione verità” per indagare sui morti nei primi 13 giorni di manifestazioni e al Bashir ha annunciato elezioni libere entro il 2020, ma nessuno gli crede più e i cittadini si chiedono che fine abbiano fatto i proventi delle esportazioni d’oro che, secondo il governo, avrebbero dovuto rimpiazzare quelle petrolifere. L’opposizione è convingta che siano finite nelle capienti tasche dei parenti e dell’entourage del presidente e uno degli sloga più sentiti durante le manifestazioni è «Potere corrotto e governo ladro». Intanto gli uomini d’affari hanno svuotato i loro conti in banca e hanno esportato i capitali all’estero, in attesa di una rivoluzione o di un colpo di stato che toglierà il potere al loro amico al Bashir.

Dopo 29 anni di potere assoluto, l’Ncp non ha esitato nemmeno un momento a ricandidare al Bashir alle presidenziali del 2020, anche se il colonnello aveva assicurato che non si sarebbe ripresentato, intanto brigava per cambiare la Costituzione per potersi candidare fino a che non morirà.

Quello che è certo è che la transizione democratica promessa da al Bashir subito dopo il colpo di stato del 1989 non si è mai vista e che il Sudan ha perso la guerra contro i ribelli del Sud (che poi la guerra hanno continuato a farsela fra di loro) e deve affrontare an cora guerriglie e rivolte delle altre minoranze etniche.

Il pugno di ferro e la retorica nazional-musulmana non funzionano più e i manifestanti chiedono ormai apertamente che il dittatore e la sua cricca islamista e corrotta facciano le valige. Ma per ora esercito e polizia difendono ancora il regime del quale sono sempre state le colonne.

L’intera economia del Sudan è in mano alla ristretta cerchia di al Bashir che controlla i vertici dello Stato e del governo ipotecando il futuro del Sudan, Un futuro che i sudanesi vogliono riprendersi e per farlo dovranno abbattere un regime marcio ma ancora molto pericoloso.