Coronavirus, influenza e polmonite a confronto: perché non possiamo abbassare la guardia

Livi Bacci: «Ritardare e abbassare il picco dei contagi dà più tempo per organizzare le difese sociali e sanitarie, attenuando la grande pressione che si genera sulle strutture ospedaliere e nei reparti di terapia intensiva»

[11 Marzo 2020]

Secondo i dati aggiornati ieri sera dalla Protezione civile sono 8.514 le persone che in Italia risultano positive al coronavirus Sars-Cov-2, con 631 decessi: poche ore prima dall’arrivo del decreto con cui il Governo ha imposto in tutta Italia le misure di contenimento dell’epidemia in corso, ovvero la sera del 9 marzo, i decessi erano 463. Numeri che hanno imposto l’arrivo del Dpcm #IoRestoaCasa, con disposizioni stringenti in fatto di distanziamento sociale che devono essere osservate oltre che con rigore anche con lucidità, in modo da capire perché bisogna restare il più possibile a casa.

«Il Covid-19 non è l’Angelo Sterminatore», spiega il celebre demografo Massimo Livi Bacci su neodemos ricordando i dati diffusi dalla Protezione civile. Se «nel 2017 (ultimo dato disponibile) i decessi per influenza e polmonite furono 14.035», l’esperienza maturata di fronte all’epidemia da coronavirus in corso mostra che «nell’80% dei casi c’è una rapida guarigione come per una comune influenza, nel 5% dei casi si richiede una terapia intensiva. Ma sarebbe una criminale imprudenza – sottolinea Livi Bacci – trarre da qui un motivo per sottovalutare il virus. Questo si diffonde molto rapidamente e secondo modelli di studiosi seri un’alta quota della popolazione sarebbe destinata a contrarla. Se i contagiati fossero un milione, ben 50.000 persone dovrebbero trovar posto in terapia intensiva (che oggi dispone di 5.000 letti). Non ci sono, per ora, farmaci specifici per combattere il virus (si raccomandano il riposo e la reidratazione, come i medici della scuola salernitana, e i febbrifughi, che esistono da secoli). Un vaccino deve essere ancora sviluppato».

In questo contesto, l’arma del distanziamento sociale è importante perché permette di abbassare e dilazionare il numero dei contagi, un risultato che oggi rimane fondamentale da conseguire per permettere al Sistema sanitario nazionale di affrontare l’emergenza: «Lasciando briglia sciolta all’epidemia – osserva Livi Bacci – si arriva ad un picco molto alto di casi e a un numero totale di casi maggiore. Adeguati, vigorosi e costosi interventi possono appiattire la curva, ridurre il picco massimo, e diminuire i casi di contagio, con ovvi vantaggi. Il maggiore di questi consiste nel ritardo e nell’abbassamento del picco, dando più tempo per organizzare le difese sociali e sanitarie e attenuando la grande pressione che si genera sulle strutture ospedaliere e nei reparti di terapia intensiva, come sta avvenendo in Lombardia e in molte province del nord del Paese. Una pressione, tra l’altro, che genera gravi problemi anche per i malati con altre patologie, che richiedono quelle cure che in fase di emergenza è assai più difficile erogare. Inoltre si “guadagna tempo” prezioso nella corsa per sviluppare farmaci adatti a combattere il virus e, eventualmente, un vaccino».

Ecco che dunque, di fronte a quest’evidenza, il Governo ha scelto di estendere le misure di contenimento dal nord all’intero Paese. La chiusura era «necessaria», spiega su Scienza in rete Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute e già presidente dell’Istituto superiore di sanità: l’evoluzione dell’epidemia «insieme al movimento di persone assolutamente inconsulto e incontrollato dal Nord al Sud (dopo la diffusione del primo decreto, ndr), ha suggerito che l’epidemia che si stava verificando nelle regioni del Nord si potesse espandere al resto del territorio».

L. A.