Coronavirus, studio italiano rileva «concentrazione di particelle virali molto bassa nel PM10»

Cnr: la trasmissione del Sars-Cov-2 attraverso le goccioline respiratorie in aria è poco probabile in ambienti esterni, se non nelle zone di assembramento

[23 Novembre 2020]

Il coronavirus Sars-Cov-2, il cui contagio può portare ai sintomi Covid-19, difficilmente può portare a una diffusione della pandemia viaggiando insieme all’inquinamento atmosferico e – più in generale – il ruolo della della trasmissione in aria (detta airborne) sembra modesto negli ambienti aperti a meno che non ci siano assembramenti. È quanto emerge dalla ricerca Sars-Cov-2 concentrations and virus-laden aerosol size distributions in outdoor air in north and south of Italy, condotta da un team di ricerca italiano raccogliendo campioni di aerosol in due città a diverso impatto di diffusione, Venezia-Mestre e a Lecce.

Grazie ad uno studio multidisciplinare, condotto dal Cnr-Isac di Lecce, dall’Università Ca’ Foscari Venezia, dal Cnr-Isp di Venezia e dall’Istituto zooprofilattico sperimentale Izspb, sono state analizzate le concentrazioni  e le distribuzioni dimensionali delle particelle virali nell’aria esterna raccolte simultaneamente, durante la pandemia, in Veneto e Puglia nel mese di maggio 2020, tra la fine del lockdown e la ripresa delle attività.

Come spiegano dal Cnr, si tratta di una ricerca avviata grazie al progetto Air-Cov per affrontare un tema ancora molto dibattuto nella comunità scientifica in merito ai meccanismi di trasmissione del coronavirus. Come ricordano anche dal ministero della Salute, le attuali evidenze scientifiche mostrano che il Sars-Cov-2 si trasmette da un soggetto malato in modo diretto attraverso saliva, secrezioni respiratorie o goccioline droplet che investono le persone che sono a contatto stretto (distanza inferiore di 1 metro), oppure in modo indiretto attraverso oggetti o superfici contaminati; da qui la necessità di mantenere la distanza, indossare le mascherine e lavarsi spesso le mani. In alcuni casi però goccioline droplet molto piccole (chiamate nuclei di goccioline aerosolizzate o aerosol) sono in grado di rimanere a lungo sospese nell’aria: ma sono anche in grado di diffondere il contagio?

Una risposta definitiva non c’è, ma lo studio sulla rivista scientifica Environment International sembra ridurre questa possibilità: la potenziale esistenza del virus Sars-Cov-2 nei campioni di aerosol analizzati è stata determinata raccogliendo il particolato atmosferico di diverse dimensioni dalla nanoparticelle al PM10 e determinando la presenza del materiale genetico (Rna) del coronavirus con tecniche di diagnostica di laboratorio avanzate.

Come spiega il ricercatore Cnr-Isac Daniele Contini «tutti i campioni raccolti nelle aree residenziali e urbane in entrambe le città sono risultati negativi, la concentrazione di particelle virali è risultata molto bassa nel PM10 (inferiore a 0.8 copie per m3 di aria) e in ogni intervallo di dimensioni analizzato (inferiore a  0,4 copie/m3 di aria). Pertanto, la probabilità di trasmissione airborne del contagio in outdoor, con esclusione di quelle zone molto affollate, appare molto bassa, quasi trascurabile. Negli assembramenti le concentrazioni possono aumentare localmente così come i rischi dovuti ai contatti ravvicinati, pertanto è assolutamente necessario rispettare le norme anti-assembramento anche in aree outdoor».

Certo, un rischio maggiore «potrebbe esserci in ambienti indoor di comunità scarsamente ventilati, dove le goccioline respiratorie più piccole possono rimanere in sospensione per tempi più lunghi ed anche depositarsi sulle superfici», come sottolinea Andrea Gambaro, professore a Ca’ Foscari: «È quindi auspicabile mitigare il rischio attraverso la ventilazione periodica degli ambienti, l’igienizzazione delle mani e delle superfici e l’uso delle mascherine». In ogni caso, lo studio delle concentrazioni in alcuni ambienti indoor di comunità sarà oggetto di una seconda fase del progetto Air-Cov.

Al momento a perdere quota è l’ipotesi, avanzata nei mesi scorsi da altri ricercatori italiani, che l’inquinamento atmosferico possa fare da carrier dell’infezione, trasportando sul particolato atmosferico dei virus Sars-Cov-2 in grado di veicolare il contagio. Ciò non significa naturalmente che l’inquinamento atmosferico non abbia un ruolo nella severità della pandemia: le evidenze finora raccolte mostrano che l’esposizione a lungo termine all’aria inquinata è un fattore di rischio, peraltro piuttosto rilevante. Si stima infatti che se in Italia l’inquinamento antropogenico da PM2.5 non esistesse – e invece miete 58.600 vittime l’anno, indipendentemente da Covid-19 –, la pandemia nel nostro Paese avrebbe risparmiato il 15% delle vite che si è portata via.