Ospitiamo l’articolo pubblicato su QualEnergia col titolo “In attesa del vaccino”

La seconda ondata siamo noi

Che cosa aspettarsi quando, già a gennaio se non prima, verrà approvata una prima generazione di vaccini anti Covid-19?

[9 Dicembre 2020]

La “seconda ondata”: il termine s’è affermato mediaticamente in tutto il mondo, forse come espressione sintetica degli accadimenti o forse perché evoca la capacità aggressiva di un virus che non ci pensa neanche un attimo a demordere e torna all’attacco “più forte che pria”. In realtà nessuna popolazione, neanche quella dei virus, ha mai mostrato una crescita illimitata, da qui la correzione di Verhulst a Malthus della quale abbiamo già parlato (QE, 2, 2020).

Il virus procede avanzando nei luoghi di minor resistenza – anziani, immunodepressi – e rallenta man mano che, cercando sempre nuove prede, incontra soggetti più forti. Alla fine, si esaurisce “asintoticamente”. È un po’ come l’effetto Schottky, che sottratto allo studio quantistico della struttura della materia si può volgarizzare, ci perdoni il compianto professor Careri, con l’effetto “spaghetti”: facili le prime “inforcinate”, sempre più difficili quando gli spaghetti diventano rari nantes nella scodella.

La stessa influenza “spagnola”, che imperversò in tutto il mondo nel biennio successivo alla Prima guerra mondiale, scomparve dopo aver infettato un terzo della popolazione di allora e aver seminato, anche questa una stima, 50 milioni di morti. Quasi il triplo di quelli della guerra. Certo, farmaci, presidii e condizioni sanitarie del 1918-1920 non potevano essere quelle di oggi, e questo spiega l’elevato tasso di mortalità,superiore al 5%, della “spagnola”, ma l’evoluzione del virus quella è. E, a proposito del suo “spegnimento” asintotico, sono stati ritrovati nei ghiacci tibetani gruppi di virus conservati lì per millenni, di cui 28 sconosciuti (Zhi-PingZhong et al.,Jan 2020). L’importante è che nella sua diffusione il virus raggiunga la soglia della irrilevanza statistica, come accade ormai in Cina da molti mesi.

Allora, che cos’è questa seconda ondata? Con brutale semplicità si può rispondere: “Siamo noi”. Con un nuovo asintoto, limite alla crescita dei casi, al quale purtroppo corrisponderà un ulteriore prolungamento dei tempi del contagio. Quando, già nell’estate, si sono allentate un po’ dappertutto le restrizioni per il distanziamento sociale ed è ripresa un’intensa circolazione delle persone, i contattisono aumentati e il numero dei contagiè ripreso a salire, invertendo la velocità di crescita che prima era in forte attenuazione. Con cifre impressionanti nei Paesi che erano stati un po’ tiepidi nei lockdown o esitanti rispetto a nuove misure, Germania e Svezia restando una parziale eccezione.

L’Europa nuovo focolare del Covid-19

I numeri assoluti sono fondamentali per valutare la pressione esercitata dal Covid-19 sulle strutture sanitarie e sugli stessi operatori, ritornata drammatica già a fine ottobre scorso;ma per valutare il ritmo con cui il virus continua a diffondersi è determinante la velocità di crescita, cioè il tasso di variazione giornaliero. Quando le agenzie di stampa registravano l’impressionante record di 200mila nuovi casi in un sol giorno negli Stati Uniti, questo corrispondeva a un incremento del 2%, mentre l’Italia da giorni viaggiava intornoal 4%.

La velocità di crescita in Italia segnala un dato comune a tutta Europa. Infatti, a partire da metà ottobre l’Europa, che secondo la suddivisione in aree dell’OMS include, oltre a UK, Russia, Ucraina, Bielorussia, Stati caucasici, Kazakhstan, Uzbekistan, Turchia e Israele con oltre 850 milioni di abitanti, superava il numero di contagiati, e anche di decessi da Covid-19, degli Usa in un crescendo che a metà novembre registrava quasi 15 milioni di casi e oltre 320.000 mortia fronte degli 11 milioni di casi e 250 mila morti negli Stati Uniti.

L’Europa è il nuovo epicentro del virus, ripartono coprifuochi, divieti, misure più severe. In Italia le regioni si colorano di giallo, arancione o rosso a seconda del rischio. Crescono i timori, ognuno ha un familiare o un amico colpito dal virus, sempre più sparuti i “negazionisti” perché davanti ai numeri i proclami per la libertà individuale cedono il passo.

A metà novembre il livello medio di incidenza europeo – numero di casi per ogni 10.000 abitanti – registrato dalla Johns Hopkins University era 173, tenuto più basso, come quello della mortalità, da Paesi popolosi quali Turchia (51), Germania (94) e Russia (130), ma eraimpressionante in alcune nazioni: 463 in Belgio, 425 in Czechia, 391 in Armenia,377 in Israele, 321 in Spagna, 307in Svizzera, 287 in Francia, 254 in Slovenia eOlanda. Seguivano: Austria 219, UK 201, e poi l’Italia,183, nonostante fosse cresciuto più rapidamente degli altri nelle due prime settimane di novembre, e la Svezia 179. Alla Germania il record positivo, si fa per dire, fra i grandi Paesi per il tasso di mortalità dell’1,6%; inferiore al 2,2% medio dell’Europa, cui si approssimavano Francia, 2,3%, e Spagna, 2,7%, mentre Italia e UK erano vicine al 4%. Con la Lombardia, ahimè, oltre il 6%.

Un ritmo invece in calo in India, il cui numero di abitantista raggiungendo quello della Cina,con meno di 9 milioni di contagiati, cioè un’incidenza pari a 70, e un tasso di mortalità inferiore a quello della Germania:1,4%. Comparabilii dati relativi al Bangladesh: oltre 160 milioni di abitanti, un’incidenza pari a 26 e un tasso di mortalitàdell’1,4%. E anche quelli dell’Indonesia: con oltre 260 milioni di abitanti l’incidenza, sempre a metà novembre, era di 17 e un tasso di mortalità del 2,5%.

Questi dati aprono a una considerazione.

La crisi umanitaria dell’America Latina

È impressionante il divario tra le due gigantesche aree continentali separate dall’Oceano Pacifico. In quella che l’OMS definisce Western Pacific – Giappone, Cina, Sud Corea, Filippine, Malesia, Australia – l’incidenza più elevata era, sempre a metà novembre, quella delle Filippine, 40, e un indice di mortalità 2,2%. Seguivano Malaysia, 14 e 0,7%; Australia, 11 e 3,1%; Giappone, 9 e 1,6%; Sud Corea, 5 e 1,7%. E, abbandonando per un momento la ripartizione dell’OMS, l’incidenza in tutta la penisola indocinese – Thailandia, Vietnam, Laos e Cambogia – era pressoché nulla. La Cina,che aveva avuto un’elevata percentuale di decessi, circa il 5%, fino a marzo, si mostrava sostanzialmente ferma, da mesi, a meno di 95.000casi e di 5000 morti. Ora, mentre i dati di Cina, Giappone e Sud Corea attengono all’estremo rigore dei provvedimenti presi, a un tipico senso di disciplina popolarmente diffuso e all’uso intenso di tecnologie di rilevazione e tracciamento del virus, non si può predicare lo stesso per gli altri Paesi delle aree citate, come anche per i popolosissimi India, Bangladesh e Indonesia.

Invece, nelle Americhe Nord e Sud – il lato Est dell’Oceano Pacifico – il numero dei contagiati aveva raggiunto a metà novembre i 23 milioni di casi, con incidenza 340 per Panama, vicina a 300 per Colombia, Perù, Cile e Argentina, sopra 250 per la California; vale a dire, anche non tenendo conto della Cinache falsificherebbe il confronto, decine di volte superiore a quella dei Western Pacific. Questi ultimi, poi, con una densità abitativa, sia media che locale, non certo inferiore a quella dei Paesi della sponda estdell’Oceano Pacifico.

Se dunque la densità, senz’altro uno dei parametri fondamentali, non è però quello guida, bisognerà tentare altre correlazioni. È stata avanzata l’ipotesi, sulla base di una review di oltre 500 articoli di merito, che i climi umidi e caldi della zona tropicale sfavorirebbero la diffusione del virus (P. Mecenas et al., Effects of temperature and humidity on the spread of COVID-19: A systematic review”, 18 Sept. 2020); e indubbiamente quello è il clima che caratterizza non solo gran parte dei Western Pacific, ma anche India, Indonesia e Bangladesh. Mentre il predominare delle cordigliere americane – Rocky Mountains, Ande – fornisce in quella sub-regione tropicale condizioni di clima diverse nelle aree racchiuse verso l’Oceano sia nel Nord che nel Sud America.

Ma al di là di studi e indagini da approfondire sulle correlazioni, emerge in modo drammatico il problema sociosanitario dell’America Latina, che non ha solo a che vedere con gli alti tassi di mortalità. Forse ha fatto velo lo stupido machismo del presidente del Brasile Jair Bolsonaro e l’attenzione si è concentrata solo sui dati del Brasile, ma lasciamo la parola aThe Lancet, che nell’articolo “COVID-19 in Latin America: a humanitarianc risis” del novembre 2020 disegna la generalità della questione e le gravi prospettive che comporta: “La regione nel suo insieme sta affrontando una crisi umanitaria sostenuta da instabilità politica, corruzione, disordini sociali, sistemi sanitari fragili e forse, cosa più importante, disuguaglianza di lunga data e pervasiva – nel reddito, nella sanità e nell’istruzione – che è stata il tessuto sociale ed economico della regione. Si stima che circa 231 milioni di persone in America Latina vivranno in povertà entro la fine del 2020 (raggiungendo un livello visto l’ultima volta 15 anni fa). I paesi dell’America Latina hanno a lungo avuto alcune delle disuguaglianze di reddito più gravi al mondo e si prevede che peggioreranno. Il mercato del lavoro informale è enorme e rappresenta il 54% di tutto il lavoro nella regione (fino al 70% in alcuni paesi, come il Perù). I lavoratori informali hanno scarso accesso alla protezione sociale e non hanno altra scelta che continuare a lavorare quotidianamente per guadagnarsi da vivere. Il risultato è che la loro capacità di seguire le misure di quarantena e di allontanamento sociale è limitata.”

L’analisi si inoltra nei vari aspetti sanitari, non ultimo quello che da noi ricorda la Lombardia di Formigoni: “Sebbene alcuni paesi, tra cui Brasile e Costa Rica, dispongano di un sistema sanitario universale, la maggior parte dei paesi latinoamericani presenta grandi lacune nell’accessibilità (…) C’è corruzione nell’uso delle risorse pubbliche. Il risultato è spesso un rafforzamento del settore privato a scapito dei servizi sanitari pubblici. Senza una copertura sanitaria universale, affrontare la pandemia sarà impossibile.” E poi, a completare la gravità del quadro: “Gli sfollamenti di persone sono aumentati vertiginosamente in America centrale e la crisi dei migranti venezuelani sta colpendo la regione (…) COVID-19 è iniziato come una crisi sanitaria, ma ora è una crisi umanitaria.”

Al di là delle buone intenzioni espresse nella dichiarazione dei ministri degli esteri di 33 Paesi dell’America Latina e dei Caraibi, il 28 ottobre 2020 a latere della 38^ sessione delle NU, mentre l’Unione Africana ha costituito già dal 2016 l’efficiente struttura Africa CDC (Africa Centres for Disease Control and Prevention) per rafforzare l’azione delle istituzioni preposte alla salute pubblica, non esiste una struttura simile per l’America Latina. E The Lancet conclude, dopo aver stigmatizzato il cono d’ombra sulla situazione di quella regione: “Per affrontare le cause principali della pandemia nella regione, e forse per salvare qualcosa di buono da un disastro, le iniziative sanitarie globali devono prendere più sul serio l’America Latina.”

In attesa del vaccino

Stando alle notizie veicolate dai media sono almeno sei i gruppi di ricerca, pubblici e privati, che hanno messo a punto un vaccino e si sono inoltrati nella procedura e nelle sperimentazioni che portano alla convalida e all’utilizzo sicuro su ampia scala. La von der Leyen ha già dichiarato la prenotazione di 400 milioni di dosi di vaccino; e da tempo, già quando la ricerca era agli inizi, si sono moltiplicate le prese di posizione a favore della gratuità e dei criteri di priorità –assistenza sanitaria di prima linea, lavoratori essenziali, come gli insegnanti di scuola,anziani e gruppi critici – da seguire per garantireun’accessibilità universale al vaccino (“Equitable Allocation of Covid-19 Vaccine”, The National Academic Press). E riguardo all’efficacia che si pretende dai vaccini, terreno più spinoso ma fondamentale, WHO ha raccomandato che la riduzione del rischio conseguente alla vaccinazione sia di almeno il 50%.

Ma quando, già a gennaio se non prima, verrà approvata una prima generazione di vaccini anti Covid-19, che cosa aspettarsi? L’attesa popolare è l’immunità, e quindi una drastica riduzione della trasmissione dell’infezione con un ritorno alla normalità pre-Covid. Insomma “respirare meglio, respirare tutti.” Non sarà così, sicuramente non nei primi mesi.

Innanzitutto, i vaccini possono proteggere dall’infezione, ma non è detto che abbiano uguale efficacia rispetto all’annullare o ridurre la trasmissione. Poi non è ancora assodata l’efficacia rispetto alle funzioni respiratorie; le prime sperimentazioni sui primati non umani hanno dato buoni risultati per le basse vie respiratorie, non così per le alte (van Doremalen et al., Nature 2020 online 30 July). Inoltre, non è chiaro il panorama delle ricadute, né se le ricadute possano essere in qualche modo associate alla “seconda ondata”.

Si sa che i vaccini antinfluenzali sono meno efficaci nelle popolazioni più anziane rispetto alle popolazioni più giovani, in parte a causa dell’indebolirsi del corredo immunitario; potrebbe accadere lo stesso con i vaccini Covid-19, ma se avessero un’efficacia accettabile nel ridurre la morbilità e la mortalità nei gruppi ad alto rischio, avrebbero un ruolo importante, indipendentemente dall’impatto sulla trasmissione o sul pervenire all’immunità di gregge della popolazione.

Infine, se i viaggi internazionali dovessero ricominciare completamente, l’assegnazione dei vaccini a diversi Paesi con diversi mezzi di accesso richiederà attente decisioni, ancheispirate a motivi morali, perché nessun Paese sarà veramente protetto dal Covid-19 se non quando praticamente il mondo intero non lo sarà.

Nonostante queste considerazioni “i vaccini Covid-19 sono necessari, anche se avessero un impatto minimo sulla trasmissione e nonostante le sfide dell’allocazione del vaccino. È probabile che questi vaccini non ottengano l’immunità di gregge. In tal caso, le strategie per il modo in cui utilizzare tali vaccini dovrebbero fondarsi su altre considerazioni (…) Soprattutto, sarà importante comunicare ai responsabili politici e al pubblico in generale che i vaccini di prima generazione sono uno strumento nella risposta globale della salute pubblica al Covid-19 ed è improbabile che siano la soluzione definitiva che molti si aspettano.” Così conclude sul The Lancet di novembre Gabriel Leung, un ricercatore della Scuola di salute pubblica dell’Università di Hong Kong, al quale ci associamo.

di Gianni Mattioli e Massimo Scalia

Per leggere l’articolo pubblicato su QualEnergia: https://www.lanuovaecologia.it/qualenergia-novembre-dicembre-2020/