Risolto il misterioso caso del cranio della Grotta Marcel Loubens, vicino a Bologna

Una scoperta che offre importanti indizi per ricostruire le pratiche funerarie delle popolazioni eneolitiche

[5 Marzo 2021]

Nel 2015 venne rinvenuto un cranio umano, risalente a oltre 5.000 anni fa, a 26 metri sotto il livello del suolo durante l’esplorazione di un nuovo ramo della Grotta “Marcel Loubens”: una cavità che si trova all’interno del Parco regionale dei Gessi bolognesi e calanchi dell’Abbadessa (a San Lazzaro di Savena, in provincia di Bologna), nell’area centrale delle grande depressione carsica della Dolina dell’Inferno. Il reperto era in cima ad un pozzo verticale alto 12 metri, non comunicante con l’esterno, e solo nel 2017 è stato possibile recuperarlo, grazie ad una squadra del Gruppo Speleologico Bolognese (GBS-USB). I ricercatori si sono subito chiesti: «A chi apparteneva? Come ha fatto ad arrivare fin lì? E cosa significano quei tagli che si vedono in diversi punti del reperto?» Un vero e proprio “cold case archeologico”, finito su Smithsonian Magazine, e che i i ricercatori dell’università di Bologna  hanno risolto con lo studio multidisciplinare “Unveiling an odd fate after death: the isolated Eneolithic cranium discovered in the Marcel Loubens Cave (Bologna, Northern Italy)” pubblicato su PLOS ONE.

L’analisi del cranio è stata effettuata al Laboratorio di antropologia fisica del  Dipartimento di scienze biologiche, geologiche e ambientali dell’UniBo diretto da Maria Giovanna Belcastro e i risultati hanno rivelato che il cranio apparteneva ad una giovane donna, tra i 24 e i 35 anni vissuta nell’Età del Rame (Eneolitico), il cui cadavere doveva essere stato manipolato con operazioni di pulizia dei tessuti molli, forse nell’ambito di un rituale funerario.  I ricercatori bolognesi dicono che «Il corpo doveva trovarsi sul bordo di una dolina: da lì il cranio, spinto dall’acqua e dal fango, deve essere rotolato all’interno della grotta, fino al punto e in cui è stato ritrovato». Non conosciamo la causa della sua morte, ma doveva aver subito prolungati stress metabolici durante l’infanzia. Le carie presenti in alcuni molari suggeriscono una dieta ricca di carboidrati: un tratto ricorrente a partire dal Neolitico, quando furono introdotte le prime tecniche agricole».
Secondo la Belcastro, «Questa è la prima chiara evidenza di manipolazioni peri mortem di un cranio in epoca eneolitica in Italia documentata solo dallo studio osteologico, considerando che il contesto in cui è stato trovato il cranio è privo di qualunque altra evidenza antropologica e archeologica. Si tratta di una scoperta che offre importanti indizi per ricostruire le pratiche funerarie delle popolazioni eneolitiche che vivevano nel territorio emiliano-romagnolo”.
Il cranio è stato sottoposto ad approfonditi studi antropologici, per ricostruirne il profilo biologico ed esaminarne le dinamiche tafonomiche, testimonianza di processi peri mortem e post mortem che il cadavere ha subito, fino alla scheletrizzazione e al successivo rinvenimento dei resti. All’UniBo confermano che «L’analisi al radiocarbonio ha permesso di datare il reperto in un periodo compreso tra il 3.630 e il 3.380 avanti Cristo, ovvero nella prima fase dell’Età del Rame in Italia settentrionale».

Dallo studio delle lesioni peri mortem sulla superficie del cranio è emerso che «Il cadavere (o forse solo la sua testa) doveva essere stato oggetto di manipolazioni intenzionali, effettuate probabilmente nell’ambito di un rituale funerario. C’è inoltre un elemento in più: tra le lesioni individuate dagli studiosi, una sembra legata ad un intervento (forse chirurgico) intra vitam di cui rimane una piccola traccia attorno alla quale c’è un alone rossastro, forse dovuto all’applicazione di ocra, pigmento usato in ambito funerario già nel Paleolitico».

La Belcastro aggiunge: «Lo studio di questo reperto ci riporta ad una visione della vita e della morte molto diversa dalla nostra, propria invece delle comunità eneolitiche di quella zona. La manipolazione del cadavere o dello scheletro, che poteva prevedere anche attività cruente, e in particolare un’attenzione specifica per il cranio, è documentata fin dalla preistoria più lontana».

Fatto, per quanto possibile il ritratto di questa nostra misteriosa antenata,  restava però una domanda: «Come ha fatto il suo cranio a finire in una grotta, ad una profondità di 26 metri, in cima ad un alto condotto verticale, in assenza di altri reperti antropologici e archeologici nelle vicinanze?»

Per rispondere, i ricercatori hanno analizzato i sedimenti all’interno del cranio, le incrostazioni, le pigmentazioni e le lesioni post mortem presenti sulla sua superficie e concludono: «Questo ha permesso di ipotizzare che il cadavere della donna fosse stato inizialmente posto sul bordo della dolina oggi nota come Dolina dell’Inferno. Da qui, nel corso del tempo, le intemperie e i movimenti di acqua e fango avrebbero disperso i resti e fatto rotolare il cranio fino al fondo della dolina, dove è precipitato nella grotta, oggi nota come Grotta “Marcel Loubens”, da un antico ingresso di cui oggi non c’è più traccia».

Allo studio hanno collaborato per l’Università di Bologna: Annalisa Pietrobelli, Rita Sorrentino, Valentina Mariotti e Teresa Nicolosi del Laboratorio di Antropologia fisica, il geologo Jo de Waele e il paleontologo Daniele Scarponi del Dipartimento di Scienze biologiche geologiche e ambientali, Maria Pia Morigi e Matteo Bettuzzi (Dipartimento di Fisica e Astronomia) che hanno realizzato le indagini radiografiche e la restituzione digitale del reperto, Stefano Benazzi (Dipartimento Beni culturali) e Sahra Talamo (Dipartimento di Chimica “Giacomo Ciamician”). Hanno collaborato inoltre i chimici Pietro Baraldi e Paolo Zannini dell’Università di Modena e Reggio Emilia per lo studio delle tracce d’ocra, Monica Miari della Soprintendenza dell’Emilia-Romagna (settore Archeologia) e gli speleologi del Gruppo Speleologico Bolognese (GBS-USB).