Senza giovani non c’è sviluppo sostenibile, e l’Italia ha il record di giovani Neet in Ue

Il 28,9% dei giovani italiani tra 20 e 34 anni non studia né lavora, il dato peggiore di tutta l’Unione europea. Altro che ascensore sociale: il ruolo di famiglia e contesto sociale resta decisivo

[15 Luglio 2020]

“Se messe nelle condizioni adeguate, le nuove generazioni sono la componente della società maggiormente in grado di mettere in relazione le proprie potenzialità con le specificità del territorio e le opportunità delle trasformazioni in atto. Rischiano, invece, di veder scadere le proprie prerogative e di trovarsi maggiormente esposte a vecchi e nuovi rischi quando i cambiamenti vengono subiti anziché anticipati e governati”. Parole come pietre scritte da Alessandro Rosina, demografo dell’Università Cattolica di Milano e membro del think thank di greenreport Eco² – Ecoquadro.

Parole inserite all’inizio del suo ultimo lavoro sui “Neet in Italia”. Già, i Neet, gli ultimi degli ultimi tra i giovani, quasi dei reietti agli occhi di chi si ostina a non capire intanto che oggi più di ieri l’ascensore sociale scende solo ai piani più in basso, come dimostra il profilo del Neither in employment nor in education or Training italiano: secondo i dati Istat (Istat 2019b), la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 che hanno lasciato precocemente gli studi (Early leavers from education and training: ELET) è addirittura salita dal 13,8% del 2016 al 14,5% del 2018 (contro il 10,6% della media UE-28). Tra i maschi del Mezzogiorno supera abbondantemente il 20%. Sia i dati Istat che quelli del Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo, evidenziano come tra i motivi della decisione di non proseguire gli studi si sia ridotto nel tempo quello della volontà di confrontarsi subito con l’esperienza di lavoro, mentre è cresciuta la mancanza di interesse nello studio, soprattutto per chi ha famiglie meno supportive. Insomma, se nasci tondo (al sud e poco supportato dalla famiglia per non dire se sei extracomunitario), in Italia non diventerai (quasi) mai quadrato.

Un pugno allo stomaco per chi negli anni ha cercato di cambiare questo trend già assolutamente chiaro da almeno il dopoguerra e con i flussi migratori nazionali in continuo aumento (e da un po’ di nuovo in larga parte ben oltre le Alpi) là costantemente a sbatterci in faccia la realtà dei giovani più di ogni altra fredda statistica.

Ma il resto d’Italia non creda di passarsela meglio. Anche se, come dice sempre Rosina, “nel dibattito pubblico il termine Neet è spesso erroneamente fatto coincidere con uno dei due seguenti estremi di giovani nella condizione di “non studio e non lavoro”: quello degli scoraggiati e demotivati (desiderosi di lavorare ma che quasi non ci credono più per le troppe esperienze negative e porte sbattute in faccia) e quello degli “sdraiati” e indolenti (sfaccendati, poco disposti a impegnarsi nello studio o nel lavoro). Trasformando così, inoltre, l’uso del termine da condizione oggettiva a giudizio soggettivo (etichetta negativa) attribuito alla persona che vive tale condizione”.

Rispetto alla dimensione del fenomeno (in riferimento alla fascia 15- 29 anni), i dati Eurostat evidenziano che l’Italia presentava livelli più elevati della media europea prima della crisi economica (18,8% nel 2007 contro 13,2% Ue-28). E che il fenomeno “è aumentato maggiormente nel nostro Paese durante la recessione (con punta sopra il 26,2% nel 2014 contro 15,4% Ue-28); negli anni di uscita dalla crisi la nostra discesa risulta più lenta (database Eurostat, aggiornato al 11/12/2019)”.

Basti una fotografia: nel 2018 l’Italia ha il 23,4% dei 15-29enni identificabili come Neet mentre il dato Ue-28 è pari al 12,9%, quasi la metà. Allargando il campo d’osservazione alla fascia 20-34 anni il risultato non cambia di molto: 16,5% la media Ue-28, 28,9% in Italia. Il dato peggiore dell’Unione europea.

All’intero dei Neet, però, viene da dire, c’è Neet e Neet. Perché esserlo “a vent’anni o esserlo a trenta non è la stessa cosa”: ci si trova – spiega Rosina – in fasi diverse della transizione alla vita adulta con diverse esigenze e urgenze. In quest’ottica Anpal servizi  fornisce un ritratto della composizione dei Neet tra i 15 e i 29 anni per caratteristiche socio-culturali.

Il 16% tra tutti i Neet è cittadino straniero (in particolare l’11% extracomunitario e 4% comunitario). In valore assoluto prevalgono le persone con titolo di studio intermedio (scuola secondaria superiore, quasi la metà), ma in termini relativi il rischio più alto di scivolare e trovarsi intrappolati in tale condizione corrisponde a chi ha istruzione bassa. Secondo i dati Eurofound, nella composizione dei Neet, in Italia la quota di chi ha problemi fisici è più bassa rispetto alla media europea, mentre è maggiore quella di chi è disoccupato di lunga durata e di chi è scoraggiato.

Più in dettaglio, tra i giovani che non studiano e non lavorano, è possibile distinguere:

  • Le persone in cerca di occupazione (disoccupati di breve o lunga durata) che corrisponde a poco più del 40% dei Neet.
  • Gli indisponibili alla vita attiva per vari motivi, con il gruppo prevalente di donne che si occupano di attività di cura, corrispondono al 20%.
  • Persone non alla ricerca attiva di lavoro, ma in attesa di opportunità, che aspettano che si verifichino alcune con – dizioni e interessati a fare attività formative informali. Rappresentano il 25% dei Neet.
  • Gli scoraggiati, detti disimpegnati, sono stimati attorno al 15%, non cercano lavoro, non partecipano ad attività formative anche informali, non sono toccati da obblighi socio-fa – miliari o da impedimenti di varia natura e sono per lo più caratterizzati da una visione pessimistica delle condizioni occupazionali. Essi hanno prevalentemente livelli di istruzione bassi e senza esperienza, concentrati soprattutto nelle regioni del Sud.

Esiste, inoltre, “una quota considerevole di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano e che, o non hanno mai incontrato un operatore del sistema pubblico dei servizi per il lavoro o, se lo hanno fatto, l’incontro è avvenuto più di due anni fa: si tratta di un bacino di circa 1 milione e 400 mila giovani.

Questa platea – dice sempre Rosina – è costituita da individui potenzialmente attivabili, che possono essere accompagnati e seguiti in un percorso di inserimento lavorativo”, serve però una strategia efficace in grado di intercettarli e ingaggiarli in un progetto di attivazione.

Giovani, figli nostri, con gli orecchini, piedi di tatuaggi, che scimmiottano i nostri governatori più social, che invece di farci solo incazzare, questi ragazzi, dovrebbero farci un po’ di tenerezza. Ma nessuno si vergogna neanche un pochino? C’è qualcuno ch si può davvero ritenere “non colpevole”? Perché questi ragazzi sarebbero in grado e avrebbero la sensibilità di essere parte del cambiamento verso un mondo più sostenibile, molto di più di tanti vecchi e “perfetti” paracarri buoni solo a sputare sentenze e bollare le generazioni come “perdute”.