Tsunami in Indonesia, «tutto è sparito». Distruzione e vittime come nel 2004

Il figlio del Krakatoa spazza via centri turistici e villaggi poverissimi

[24 Dicembre 2018]

Secondo l’Agenzia nazionale di gestione delle catastrofi  dell’Indonesia, è salito a 281 e ad almeno 1.016 ferito il bilancio ufficiale dello tsunami provocato dall’eruzione vulcanica dell’Anak Krakatau, o “il figlio del Krakatoa”, rinato dalle ceneri della grande esplosione del Krakatoa che seminò morte e distruzione su un’area vastissima e condizionò addirittura il clima mondiale. L’Anak Krakatau è uno dei 129 vulcani attivi presenti in Indonesia e che dominano un immenso arcipelago  di 17.500 isole che sorgono sulla zona sismica più attiva del mondo: la cintura di fuoco del Pacifico.

Ma questo già pesante tributo di sangue versato al figlio del Krakatoa è destinato purtroppo a diventare ancora più pesante: lungo le coste dello Stretto della Sonda, nelle isole di Java e Sumatra, probabilmente le vittime sono molte di più e nessuno sa davvero quale sia la situazione nei villaggi non ancora raggiunti dai soccorsi e che sembrano completamente cancellati dalla faccia della terra.

Mentre da sabato le operazioni di soccorso e la ri cefa delle vittime continuano senza sosta, il portavoce dell’agenzia indonesiana, Sutopo Purwo Nugroho, ha avvertito: «Pensiamo che numerose vittime siano in trappolate sotto le rovine degli edifici e i materiali spostati dallo tsunami». Ma nessuno sa quanti corpi il mare si sia riportato con sé.

Lo tsunami ha colpito 5 distretti indonesiani: Pandeglang e Serang nella provincia di Banten,  Lampung Selaltan, Panawaran e Tenggamus  nella provincia di  Lampung, nei centri abitati dove sono arrivati i soccorsi la catastrofe ha distrutto  611 case, 69 alberghi e ville e 420 navi e imbarcazioni. Nel distretto di Panawaran circa 230 persone sono state alloggiate  in centri di emergenza, ma nei villaggi chi si è salvato dorme all’aperto.

Il governo indonesiano ha mobilitato una forza operativa congiunta composta da migliaia di soldati, poliziotti, personale dell’ufficio ricerca e salvataggio dell’Agenzia nazionale di gestione delle catastrofi   e da volontari, impegnati in una corsa contro il tempo per salvare eventuali sopravvissuti sotto le macerie. Finora la maggior parte delle vittime c’è stata nel distretto di  Pandeglang, dove lo tsunami ha devastato località turistiche e aree residenziali. Sutopo spiega che «Nel momento in cui si è prodotta la tragedia, molte persone si trovavano lungo le zone costiere di Pandeglang».

Si è trattato di uno Tsunami anomalo, ravvicinato e quindi senza nessuna possibilità di lanciare un qualsiasi allarme, e probabilmente determinato non da una scossa di terremoto ma dal cedimento di un versante del vulcano in eruzione che ha provocato onde alte 4 – 5 metri e che qualcuno dice che siano arrivate fino a 7 metri.

L’Agenzia di meteorologia e geofisica dell’Indonesia ha proibito tutte le attività nelle zone costiere colpite dallo tsunami, «Perché la valutazione di rischio di eruzione vulcanica è ancora in corso».

Lo scenario di morte, distruzione e disperazione sembra lo stesso del 26 dicembre del 2004, quando un gigantesco tsunami provocato da un potente sisma sottomarino al largo dell’Indonesia occidentale provocò la morte di 226.000 persone, 170,000 delle quali solo nella provincia di Aceh, nell’estremo nord dell’isola di Java.

Testimoni come Asep Sunaria  hanno raccontato ad Harry Pearl dell’Agence France-Presse/Jakarta post  di aver sentito un forte “whoosh” pochi secondi prima che un muro ingoiasse la sua casa e il suo villaggio di Sukarame, ora distrutto e abbandonato dai sopravvissuti che si sono ritirati sulle colline. Ci sono interi villaggi dove chi è ancora vivo ha solo gli abiti che ha addosso. «Tutto è sparito – ha detto Sunaria – Ora stiamo cercando i corpi che non sono stati trovati, ne abbiamo trovato uno solo ieri e stiamo cercando punti in cui potrebbero ancora essere sepolti più corpi».

Il figlio del Krakatoa ha tolto ai poveri anche il nulla che avevano e ora aspettano affamati che arrivino aiuti esterni dove non c’è più niente, nemmeno una barca per andare a pesca.