Le miniere in acque profonde danneggiano le funzioni degli ecosistemi marini di profondità

I disturbi legati all'estrazione mineraria hanno un impatto a lungo termine anche sulle comunità microbiche sul fondo del mare

[5 Maggio 2020]

I noduli e le croste polimetallici coprono molte migliaia di chilometri quadrati delle profondità marine di tutto il mondo, contengono soprattutto manganese e ferro, ma anche i metalli preziosi come nichel, cobalto e rame e alcune delle terre rare necessarie per produrre prodotti di alta tecnologia e per la green economy. Dato che in futuro queste risorse potrebbero diventare scarse sulla terra – a causa tra l’altro dell’aumento della richiesta di batterie, dell’elettromobilità e delle tecnologie digitali – i giacimenti marini sono economicamente molto interessanti.  Lo studio “Effects of a deep-sea mining experiment on seafloor microbial communities and functions after 26 years”, pubblicato su Science Advances da un team di ricercatori del Max-Planck-Instituts für Marine Mikrobiologie (MPIMM), dell’Alfred-Wegener-Institut, del GEOMAR Helmholtz-Zentrum für Ozeanforschung Kiel, dell’ Alfred-Wegener-Institut, Helmholtz-Zentrum für Polar- und Meeresforschung (AWI)  e di altri istituti di ricerca tedeschi, è partito proprio dalla constatazione che «L’estrazione mineraria in acque profonde «potrebbe fornire un modo per affrontare la crescente necessità di metalli rari. Tuttavia, il suo impatto ambientale è noto solo in parte. Inoltre, mancano standard chiari per regolamentare l’estrazione mineraria e fissare soglie vincolanti per l’impatto sugli organismi che vivono nelle aree colpite».

I ricercatori tedeschi hanno infatti descritto gli impatti legati all’estrazione mineraria sui fandali profondi che hanno anche «un impatto a lungo termine sull’ecosistema naturale e sulle funzioni e comunità microbiche sul fondo del mare».

Ad oggi, non esiste ancora una tecnologia davvero pronta ed economica per il mercato per l’estrazione mineraria in acque profonde, ma dai test e dai progetti pilota in atto è già chiaro che gli interventi sul fondo del mare hanno un impatto massiccio e duraturo sulle aree colpite. I ricercatori ricordano che «Gli studi hanno dimostrato che molti abitanti sessili della superficie del fondo marino dipendono dai noduli come substrato e sono ancora assenti decenni dopo un disturbo provocato nell’ecosistema. Sono stati dimostrati anche effetti sugli altri animali che vivono nei fondali marini».

Grazie al progetto MiningImpact, il MPIMM ha ora esaminato più da vicino i più piccoli abitanti dei fondali marini e le loro performance. Il nuovo studio dimostra che «Anche i microrganismi che vivono sul fondale marino sarebbero fortemente colpiti dall’estrazione mineraria in acque profonde».

Il team guidato da Antje Boetius, a capo del team del MPIMM e direttore dell’AWI, è andato nuovamente nella cosiddetta area DISCOL nel Pacifico orientale tropicale, circa 3.000 chilometri al largo delle coste del Perù, per studiare le condizioni del fondo marino e l’attività dei suoi microrganismi. Nel 1989, i ricercatori tedeschi avevano già simulato i disturbi legati all’estrazione mineraria in questo sito arando il fondale marino in un’area di noduli di manganese di 3,5 Km di diametro con un erpice di aratro, a 4.000 metri sotto la superficie dell’oceano.

Il principale autore dello studio, Tobias Vonnahme del MPIMM, evidenzia che «Anche 26 anni dopo quel  disturbo, le tracce dell’aratro sul fondo del mare erano ancora chiaramente visibili. E anche gli abitanti batterici sono stati chiaramente colpiti. Rispetto alle regioni indisturbate del fondo marino, solo circa i due terzi dei batteri vivevano nelle vecchie tracce e solo la metà nei solchi di arature più fresche. I tassi dei vari processi microbici si sono ridotti di tre quarti rispetto alle aree indisturbate, anche dopo un quarto di secolo. I nostri calcoli hanno dimostrato che i microbi impiegano almeno 50 anni per riprendere completamente la loro normale funzione».

Così in profondità e lontano dalle forti correnti superficiali marine, i ricercatori non sono rimasti sorpresi che  le tracce dell’esperimento DISCOL fossero ancora visibili, Boetius fa però notare che «Tuttavia, anche le condizioni biogeochimiche hanno subito cambiamenti duraturi». Secondo i ricercatori, «Questo è dovuto principalmente al fatto che l’aratro distrugge lo strato di sedimento attivo superiore. Viene arato o agitato e portato via dalle correnti. In queste aree disturbate, gli abitanti microbici possono fare un uso limitato del materiale organico che affonda sul fondo del mare dagli strati d’acqua superiori. Di conseguenza, perdono una delle loro funzioni chiave per l’ecosistema».

Dallo studio viene indiscutibilmente fuori che «Tutte le tecnologie di estrazione per noduli di manganese attualmente in fase di sviluppo porteranno a un grave disturbo del fondo marino fino ad una profondità di almeno 10 centimetri. Questo è paragonabile al disturbo simulato qui, ma in dimensioni completamente diverse. L’estrazione mineraria commerciale interesserebbe da centinaia a migliaia di chilometri quadrati di fondali marini all’anno, mentre tutte le tracce di aratura del DISCOL messe insieme coprivano solo pochi chilometri quadrati. Il danno che ci si aspetta è di conseguenza maggiore, e sarebbe altrettanto più difficile per l’ecosistema recuperare»i.

Boetius conclude. «Finora, solo pochi studi hanno affrontato il disturbo della funzione biogeochimica dei fondali marini causati dall’estrazione mineraria. Con il presente studio, stiamo contribuendo allo sviluppo di standard ambientali per l’estrazione in acque profonde e sottolineando i limiti del recupero dei fondali marini. Le tecnologie ecologicamente sostenibili dovrebbero assolutamente evitare di rimuovere lo strato superficiale densamente popolato e bioattivo del fondo marino».