Antropologia e miti del progresso, ovvero come l’economia ha nascosto l’ecologia

L’immaginario e i criteri occidentali di giudizio sono frutto di ideologie sette-ottocentesche ormai incompatibili con la logica della nostra casa: la Terra

L’antropologia culturale ha mostrato da ormai diversi decenni come molte pratiche sociali, economiche – e, non di meno, ecologiche – che caratterizzano le varie società umane sono, per così dire, fondate su e condizionate da modelli, elaborazioni dell’immaginario, racconti mitico-religiosi che vengono collettivamente considerati autorevoli all’interno di una data comunità. Se, per fare un esempio, il sistema del lavoro in Occidente è organizzato da molti secoli in modo tale che la domenica ci si riposi, è perché in un testo considerato sacro si legge grosso modo che il Creatore del mondo, e dell’umanità, si sarebbe riposato al settimo giorno della sua opera.

Esistono allora – ci si potrebbe chiedere – dei miti, dei modelli antropologici, che hanno in qualche misura spinto la società occidentale moderna, e le società che ne hanno in qualche misura adottato i costumi, a essere le più straordinarie inquinatrici nella storia dell’umanità?

Già alla fine del XVIII secolo (con Adam Smith), ma in modo più sistematico dalla seconda metà del XIX secolo, filosofi, sociologi, economisti, antropologi (H. Spencer, L. Morgan, K. Bücher, A. Marshall, F. Engels, in parte anche K. Marx, solo per citarne alcuni) hanno elaborato e condiviso l’idea secondo cui l’evoluzione umana consisterebbe in una serie di passaggi progressivi da stadi più primitivi, semplici e rozzi verso altri più progrediti e avanzati che si caratterizzerebbero per un sempre maggiore controllo dell’uomo sulla natura, e una superiore capacità di sfruttarla.

Questa idea ha avuto così tanto successo nella cultura occidentale che ancor oggi la scuola, la divulgazione mediatica, e una certa parte dell’università ci educano, ad esempio, a considerare un’economia di caccia e raccolta come più primitiva, cioè inferiore, rispetto a un’economia basata sull’allevamento, o sull’agricoltura di sussistenza. Pastori e contadini, in questa prospettiva, sarebbero più progrediti perché interverrebbero maggiormente sulla natura, usando tecnologie più complesse al fine di trarre da essa maggiori mezzi di sostentamento. Sommamente evoluta, e superiore a ogni altra economia, sarebbe poi quella a noi familiare, caratterizzata dall’impiego estensivo del denaro e dalla più straordinaria crescita della produzione, scambio e consumo di beni estratti dalla natura e trasformati in merci per mezzo di supporti tecnologici ancora più avanzati.

A questa visione sette-ottocentesca del progresso economico e sociale si è poi connesso, dagli anni ’30 del XX secolo, un modo sistematico di classificare il successo o la “grandezza” di un’economia a partire dal Prodotto Interno Lordo (PIL), cioè dalla capacità di produrre beni e servizi (ancora, in larga parte, utilizzando le risorse naturali) calcolabili in termini monetari all’interno di un dato Stato. Le economie capaci di avere un PIL più alto, e possibilmente di farlo crescere quanto più possibile, diventano così il modello a cui le altre economie dovrebbero ispirarsi e imitare. Il modo con cui a tutt’oggi noi Occidentali, e non solo noi, siamo educati e abituati a guardare e giudicare le economie è sostanzialmente basato su questi criteri.

È piuttosto evidente come in questa complessa produzione dell’immaginario economico dell’Occidente moderno la questione ambientale – cioè il tema dei possibili effetti degradanti sull’ambiente legati al suo sfruttamento e inquinamento – non abbia trovato pressoché alcuno spazio. I miti del progresso e del successo economico che l’Occidente ha elaborato negli ultimi secoli hanno anzi funto per molti versi da giustificazione ideologica alla propensione delle economie “avanzate” a consumare l’ambiente. Negli ultimi due-tre decenni la questione del rilievo delle istanze ecologiche rispetto alla valutazione delle economie umane è stata posta in modo più articolato e sono stati elaborati nuovi indicatori che contemplano i fattori di tipo ecologico, come il Genuine Progress Indicator (applicato sperimentalmente in alcuni paesi occidentali), il Gross National Happiness (adottato in Bhutan) o il Green National Product.

Questi nuovi indici non hanno avuto, tuttavia, grande successo, e la ragione è facilmente spiegabile: se il rispetto e la qualità dell’ambiente, o l’impiego di modalità di produzione e consumo non distruttive o sostenibili, diventano un fattore decisivo per valutare la qualità di un’economia, il primato – politico e simbolico non meno che economico – di paesi che hanno un PIL alto (i primi quattro della lista sono USA, Cina, Giappone e Germania) ma che inquinano molto, decadrebbe, e con esso si ridimensionerebbero notevolmente gi stessi fondamenti culturali che ne hanno a lungo sostenuto l’esistenza e la capacità di generare emulazione.

L’aspetto problematico rispetto ai tradizionali miti economici dell’Occidente moderno è che, a questo punto della storia dell’umanità, il fattore ecologico non può essere in alcun modo considerato secondario o marginale nella valutazione dei processi e dei sistemi economici. L’ambiente è, infatti, la fonte principale a cui ogni atto economico attinge, e dunque non può esserci un’economia sana senza un profondo senso dell’ecologia. Giocando sull’etimologia delle parole “ecologia” ed “economia”, si potrebbe dire che se l’uomo non sarà in grado di rispettare la logica, il senso (logos) che fonda e regola il funzionamento della “casa” (oikos) in cui vive, non potrà mai creare delle “regole” (nomoi) adeguate affinché quello stesso oikos sussista.

Lo scorso 20 agosto ha rappresentato una data drammatica per il nostro pianeta: in quel giorno si è simbolicamente celebrato, infatti, lo Earth Overshoot Day, vale a dire il momento in cui il consumo di risorse naturali da parte dell’umanità inizia a eccedere la produzione che l’ambiente è in grado di mettere a disposizione per quell’anno. Questo giorno, anno dopo anno, arriva pericolosamente sempre prima, a dimostrazione di quanto il conflitto tra l’ambiente concreto e i miti economici su cui si fonda la modernità stiano producendo un inquietante fenomeno: la lenta uccisione dell’ecologico per mano dell’economico.

La via d’uscita antropologica da questa impasse è riconoscere che le ideologie che hanno alimentato preferenze e pratiche economiche in Occidente negli ultimi secoli sono ormai incompatibili con una “eco-logia” e che l’economia dovrà trovare nuove vie, nuovi miti, nuove parole chiave – e di questo ce ne occuperemo in futuro in questa rubrica – per invertire la tendenza. L’alternativa che ci si prospetterebbe altrimenti è quella ironicamente delineata da Mauro Corona nel suo “La fine del mondo storto”: l’autoestinzione dell’uomo, se non proprio “per imbecillità” come scrive Corona, quantomeno per indifferenza e ignoranza.

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