La storia di Josefina Tunki, leader indigena che difende la foresta e il popolo Shuar

“Negli anni, e memore della mia storia, ho lavorato duramente in difesa delle donne, delle violazioni dei diritti umani e per l’equità di genere, proprio per combattere il maschilismo presente nelle famiglie Shuar e prevenire la violenza fisica e psicologica sulle ragazze”

Josefina Tunki è nata 58 anni fa nella comunità di “Chichis”, sulla millenaria Cordigliera del Cóndor della foresta amazzonica ecuadoriana. E dal 2019 è la prima donna presidente del Pueblo Shuar Arutam, 12mila abitanti che appartengono a una delle 7 nazionalità indigene del paese (Kichwa, Waorani, Shiwiar, Andoas e Sépara).

Oggi Josefina è in prima linea per la battaglia degli Shuar contro le concessioni minerarie che hanno già occupato il 56% del loro territorio (anche grazie ai precedenti leader Shuar che hanno accettato denaro dal governo in cambio di concessioni a società come Exa, Solaris Resources, Lowell, EcuaSolidos e SolGold), grazie a sfratti forzati e all’utilizzo dell’esercito che ha costretto centinaia di persone a lasciare le proprie case. Nell’ultimo decennio, gli Shuar hanno creato la figura di “Shuar Protected Territory for Conservation”, aree protette alternative a quelle di Stato, governate in modo autonomo. Così riescono a gestire il 25% della loro foresta, conservare l’enorme biodiversità a rischio e difendere un territorio a loro sacro. Attualmente hanno in corso udienze sia con la Corte internazionale dei diritti umani che con la ILO.

Tutto questo ha un prezzo e Josefina, come rappresentante degli Shuar, è costantemente minacciata: “Dal governatore della Provincia di Morona Santiago e dall’esercito”, come ci racconta in un’intervista via mail. Una vita complessa, quella di Josefina, che oltre ad essere il volto e la portavoce di un movimento di resistenza costantemente sotto attacco, deve condurre la sua lotta di donna all’interno di una società ancora molto maschilista.

Racconta Josefina che quando aveva 13 anni decise di studiare ma era qualcosa che le donne Shuar Arutam non avevano la libertà di fare. Si è dovuta dunque imporre fin da subito con la propria famiglia, che non l’ha fermata, ma non l’ha neppure appoggiata. Da allora la sua è stata una lotta e un percorso tutto in salita: “Negli anni, e memore della mia storia, ho lavorato duramente in difesa delle donne, delle violazioni dei diritti umani e per l’equità di genere, proprio per combattere il maschilismo presente nelle famiglie Shuar e prevenire la violenza fisica e psicologica sulle ragazze”.

E lo fa “coordinando con alleati strategici azioni e attività per la difesa delle donne e bambini e bambine vulnerabili e formando le donne del nostro territorio sui propri diritti”. Perché nonostante Josefina, dopo una lunga militanza, sia diventata presidente di un organismo che racchiude 6 associazioni e 47 comunità, nonostante le vertenze internazionali e le lotte in atto,“c’è ancora una discriminazione contro le donne nello Shuar Arutam anche da parte dei membri del Consiglio del Popolo. Ed è sempre molto difficile che le donne possano avere una posizione di rilievo nell’organizzazione”.

Durante la pandemia, inoltre, “non c’è stata nessuna attenzione verso le donne delle mie comunità – dice ancora – né da parte del Governo, né da parte del Ministero della salute e le donne si sentono e sono sempre più sole”. Le donne, in questa come nelle altre nazioni indigene, devono ancora occuparsi di tutto in famiglia e farsi carico dei figli e della casa oltre che del lavoro. Tutto queste le danneggia enormemente dal punto di vista della vita pubblica e professionale. Ora l’impegno è infatti quello di formare le donne Shuar anche sui temi delle imprese bio: “Perché intraprendano la strada dell’imprenditorialità”. Josefina si fa portavoce anche di queste istanze, oltre che per la difesa del “territorio di vita”, come dice lei, e per il futuro: “la lotta va perché va – dice – in difesa dei diritti collettivi dei popoli indigeni dell’Ecuador”.

di Cospe per greenreport.it

Cospe è in Ecuador con alcuni progetti relativi al rafforzamento della filiera del caffè e in sostegno dei piccoli produttori. Lavora inoltre nelle zone amazzoniche di Ecuador, Colombia, Bolivia e Brasile per la difesa dei popoli indigeni, soprattutto nell’emergenza Covid-19.