[18/10/2007] Rifiuti

Mense scolastiche, l´insostenibilità di un modello da ripensare

LIVORNO. Un’inchiesta pubblicata oggi sul quotidiano la Repubblica, sul sistema delle mense italiane mette in evidenza alcuni aspetti interessanti, che invitano a riflettere su molte contraddizioni che caratterizzano il nostro tempo e la società attuale.
Intanto il fatto - positivo - che si è cercato (e la ricerca continua), di offrire oltre a un servizio che permetta ogni giorno al 5% della popolazione (soprattutto scolastica e ospedaliera) di usufruire di un pasto fuori casa, anche di sfruttare questa occasione per introdurre criteri di sana alimentazione. Privilegiando ad esempio i cibi biologici, che sono utilizzati in 258 mense a livello nazionale (anche se concentrate nelle regioni del centro –nord) o legati sempre più al territorio di produzione o a coltivazioni rigorose non solo verso la salute dell’ambiente ma anche di chi le coltiva.

Ma soprattutto provando ad inserire il corretto bilanciamento tra i vari componenti del cibo fornito. E già su questo aspetto c’è da notare la contraddizione del fatto che spesso gli sforzi dei dietologi che danno indicazione su come “costruire” un pasto bilanciato vengono clamorosamente azzerati da quanto i bambini portano poi negli zaini per gli “spuntini” di mezza mattina, spesso così ricchi di calorie da poter saturare le esigenze dell’intera giornata.

Ma tutta questa ricerca della buona e sana alimentazione deve al contempo rispondere ai requisiti sia di carattere sanitario (sempre più stringenti) sia di esigenze di organizzazione di un servizio che in alcuni casi sforna migliaia di “coperti” all’ora di pranzo, magari distribuiti su un territorio diffuso.
Tutto questo comporta un aumento delle caratteristiche di industrializzazione del prodotto finale e del servizio, che hanno come conseguenza uno scarso gradimento da parte di chi ne è fruitore. In primo luogo bambini, che c’è da dire in quanto a difficoltà di gradimento del cibo sono senza dubbio ai vertici di una ipotetica classifica!

Ma l’ulteriore conseguenza di questo scarso gradimento è un enorme spreco, dal momento che più della metà del cibo distribuito va a finire in spazzatura.
L’inchiesta riporta infatti torte (per rimanere in tema) in cui la media del prodotto realmente consumato è circa il 35% se si parla del primo piatto, va meglio per il secondo piatto con quasi il 52% consumato, per scendere a percentuali del 23-24% quando si arriva al contorno e alla frutta.
A tutto questo vanno poi aggiunti i materiali usa e getta con cui nella stragrande maggioranza dei casi i pasti vengono somministrati. Piatti, bicchieri, spesso anche posate, sono rigorosamente in plastica, per non parlare della quasi totalità dei contenitori di partenza, da cui cioè il cibo viene poi sporzionato. Per finire con le bottiglie di acqua minerale, che quasi nella totalità dei casi sostituiscono le caraffe con l’acqua di rubinetto.

Un quantitativo enorme di rifiuti che deve –nella migliore delle ipotesi - essere recuperato, ma che nella gran parte dei casi contruibuisce invece ad aumentare il volume delle discariche. Per non parlare dello spreco delle pietanze che vengono buttate e che potrebbero sfamare altrettante persone oltre a quelle cui erano destinate.
E difficilmente nel quantificare i costi medi di un pasto così confezionato, che si aggirano attorno ai 4 euro, sarà internalizzato il costo di gestione di questa mole di rifiuti.
Insomma un sistema che nonostante i tentativi di essere sempre più sostenibile- attraverso appunto l’uso di cibi biologici, eco-solidali, a km zero ecc.- difficilmente lo è poi per gli scarti che produce e per l’insoddisfazione che alimenta.

Ma allora davvero non è possibile fare altrimenti? Davvero non si può riuscire a tenere insieme qualità delle materie prime utilizzate con qualità in termini di gusto e al tempo stesso produrre meno rifiuti? Nell’inchiesta di Repubblica vengono portati alcuni casi esemplari, di mense che mettono d’accordo, dietologi, bambini, genitori e che producono una quantità che potremo definire fisiologica di scarti. E altri casi esistono e sono ben documentati.
Perché allora non fermarsi a riflettere e cercare di ripensare questo sistema che, a conti fatti, costa anche un sacco di soldi?

Un sistema rivisitato potrebbe anche essere frutto di una organizzazione integrata tra luogo di produzione dei pasti centralizzato e luogo di distribuzione decentrato nelle singole scuole o ospedali o quant’altro. Carlo Petrini, presidente di Slow food, prova a dare una indicazione, che è quella di spostare il baricentro sul locale. Ovvero decentralizzare il servizio delle mense e riportarlo più vicino al luogo di distribuzione e di utilizzo. Un sistema che in piccoli centri del resto esiste ancora e che potrebbe essere riorganizzato anche altrove, con un bilancio complessivo (economico, ambientale, occupazionale) che forse potrebbe anche dare risultati non attesi a prima vista.

Senza dubbio una rivisitazione dovrebbe riguardare sin da subito la riduzione dei rifiuti in plastica prodotti, su cui di esempi e di possibilità ce ne sono eccome.
Basta metterli in atto. E anche questo potrebbe immediatamente contribuire ad aumentare la gradevolezza del consumare un pasto a mensa. Perché non provare?

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