[22/10/2007] Energia

L´incapacità di decidere sull´energia e l´effetto Nimby

Quando si tratta di decidere su interventi infrastrutturali, è abbastanza frequente che si levino proteste da parte dei territori interessati, che producono ritardi nei cronoprogrammi attesi.
Adesso sul Nimby viene fatta ricadere anche la responsabilità del mancato sviluppo nel nostro paese della disponibilità di una fonte come il metano.
Addirittura dice Piero Gnudi, presidente di Enel, «potremmo essere in grado di aumentare la disponibilità del gas in Italia di un quarto del totale».
La stima si riferisce al piano degli investimenti che Enel vorrebbe fare nel periodo 2007-2011 per migliorare le reti e ammodernare le centrali elettriche, e che a fronte di un investimento di 14,5 miliardi di euro, porterebbe ad aumento di 23 miliardi di metri cubi di gas. Questo grazie a progetti già avviati quali il gasdotto Galsi, che passando dalla Sardegna, dovrebbe portare il gas dall’Algeria in continente, approdando in Toscana. Ma anche grazie ad altri interventi che Gnudi vede però lontani per le pastoie burocratiche, come il rigassificatore di Porto Empedocle. Su cui però, sarebbe più corretto dire, più che la sindrome Nimby, potè la mancanza di coesione politica all’interno della maggioranza di governo.
E’ infatti abbastanza evidente che a partire dalla composizione del mix di combustibili necessari a far fronte agli impegni di Kyoto (che il nostro paese sa già che è destinato a sforare), sino alla quota di ripartizioni delle varie fonti all’interno di quel mix, non c’è un accordo unanime e quindi la necessaria chiarezza.
Da cui discende che anche il numero di rigassificatori necessari a soddisfare l’esigenza di approvvigionamento di gas, relativo a quel determinato mix, è difficile stabilirlo. Doveva essere una cabina di regia a mettere fine a questa querelle, tra le autorizzazioni richieste sul territorio ( che scatenano le contestazioni sociali) e il numero effettivamente necessario al fabbisogno reale del paese per diversificare la fonte di approvvigionamento del gas per affrontare in maniera strategica la cosiddetta fase di transizione per smarcarsi dalla dipendenza delle fonti fossili.

Come doveva essere il piano energetico nazionale a stabilire come la fase di transizione doveva delinearsi. Ma mancando l’una e l’altra appare evidente che ancora una volta è il mercato ad attrezzarsi al meglio. E non potrebbe che essere così. Pertanto è abbastanza comprensibile che le aziende del mercato energetico, si muovano come meglio credono e che cerchino di stringere accordi per garantirsi la fornitura dove e meglio riescono a fare. Come ha fatto l’Eni con l’ultimo accordo stretto con la Libia. Ma non è d’altro canto accettabile che siano poi le aziende private a decidere quanti progetti realizzare e a scegliere in completa autonomia la localizzazione al di fuori di una politica ambientale e energetica.

Tenuto conto poi del fatto che le proposte di rigassificatori riguardano aree delicate come quelle costiere e che spesso interessano contesti portuali e industriali che da anni attendono interventi di bonifica e messa in sicurezza.
E se la realizzazione in Italia di alcuni impianti di rigassificazione è una scelta necessaria per diversificare e rendere più sicuri gli approvvigionamenti di gas, e dunque per affermare il ruolo del metano, che è la meno inquinante e climalterante tra le fonte fossili, come energia non rinnovabile preferenziale nella transizione verso un sistema energetico sostenibile, non è pensabile che i conflitti sociali e le sindromi Nimby intorno ai progetti si risolvano con scorciatoie procedurali e forzature nei confronti degli enti locali.
E soprattutto non si può scaricare sempre sulla sindrome Nimby, che pure ha le sue responsabilità, una incapacità della politica di svolgere il proprio ruolo decisionale.

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