[03/12/2007] Comunicati

Bali al via, tra Fidelity insostenibili e assenza di governance

LIVORNO. Uno dei tanti fondi di investimento capitale variabile presenti sul mercato, al quale è stato assegnato il nome Fidelity, informa che l’area Emea (che comprende Europa emergente, Medioriente e Africa) è «un’area ricca di risorse naturali: con il 97% del platino mondiale, il 95% di cromo e l’83% di petrolio». Non certo perché in generale questi Paesi sono stati baciati dalla fortuna, ma più probabilmente solo perché nei territorio più sviluppati le risorse naturali sono già state utilizzate nei decenni precedenti. «La regione include 11 delle 20 città con più rapido tasso di crescita – continua il promo della società di investimento - creando così un ampio mercato di investimenti in infrastrutture. E la crescita della popolazione con potere d’acquisto non ha eguali. Il risultato? Emea si presenta all’investitore di oggi come un’area – vasta e non sfruttata – di sorprendenti e potenziali investimenti: la scelta ideale per chi cerca una crescita nel lungo periodo mirando a diversificare il portafoglio». Fidelity insomma è «la combinazione unica di visione globale e profonda conoscenza locale dei mercati che ti permette di identificare nuove prospettive, in un territorio ricco di opportunità che aspettano solo di essere scoperte».

Solo una pubblicità, come tante. Che però uscendo sabato sull’inserto Plus del Sole 24 ore ha il pregio di stimolare una riflessione, visto che oggi si è aperta a Bali in Indonesia la 13/a Conferenza internazionale sul clima che vede riuniti i Paesi firmatari della Convenzione sul clima del 1992.

Il link tra le due notizie, è di fondamentale importanza. Proviamo a spiegarlo. Si dice che la Conferenza Bali che si concluderà tra due settimane avrà avuto successo se (1) deciderà di avviare le negoziazioni su un nuovo accordo internazionale sui cambiamenti climatici post-2012, se (2) concorderà un´agenda per le negoziazioni, e se (3)stabilirà una scadenza per il completamento delle negoziazioni stesse. Viceversa non ottenere questi 3 risultati rappresenterebbe un fallimento.

Andiamo con ordine e partiamo dall’ultimo punto: è necessario che le negoziazioni vengano completate nel 2009, per lasciare poi ai Governi nazionali il tempo necessario per la ratifica che dovrà ovviamente arrivare entro la fine del 2012. La speranza più che legittima è che questo limite sia centrato anche perché nel 2009 scadrà il mandato di George Bush, il più grande nemico del Protocollo di Kyoto. Tra un mese negli Stati Uniti partiranno le primarie e nel 2009 si arriverà all’elezione del nuovo presidente: tutto fa pensare che se anche dovessero vincere i Repubblicani questa volta gli Usa non potrebbero far finta di niente, soprattutto dopo che anche l’ultimo alleato, l’Australia, è caduto un paio di settimane fa, con il nuovo premier Kevin Rudd che ha trionfato alle elezioni scommettendo proprio sull’ambiente e su Kyoto, e che dopo aver ratificato il protocollo ha inviato alla conferenza ben quattro ministri, la rock star Peter Garrett (ministro per l´Ambiente), Penny Wong (risorse idriche con delega per ´Kyoto´), Wayne Swan (Tesoro) e Simon Crean (Commercio)

L’elaborazione dell’agenda di avvicinamento al post Kyoto poi, investe direttamente la terza Conferenza delle Parti che serve come incontro delle Parti del Protocollo di Kyoto (Cmp 3). Da questo confronto, che si svolge sempre a Bali, dovrebbero essere stabilite le aree principali che il nuovo accordo dovrà coprire, come la mitigazione (inclusa la deforestazione evitata), ma anche l´adattamento e gli aspetti tecnologici e finanziari. I Paesi industrializzati dovranno continuare a svolgere un ruolo di leader nella riduzione delle emissioni di gas serra, in base al principio della "responsabilità comune ma differenziata". Bisognerebbe offrire ai Paesi in via di sviluppo incentivi per incoraggiarli ad applicare tecnologie pulite, ed aiutarli a minimizzare i costi delle emissioni da deforestazione. Adattamento e mitigazione devono andare di pari passo nella risposta ai cambiamenti climatici.

Ed è proprio qui il nodo fondamentale da capire, perché l’ulteriore passaggio necessario affinché si arrivi davvero a un nuovo accordo internazionale sui cambiamenti climatici post 2012 è quello di affidarne il rispetto e il coordinamento a una governance mondiale in grado di orientare l’economia alla sostenibilità.

Nessun’altra istituzione se non l’Onu potrebbe organizzare questa governance planetaria ormai necessaria per contrastare gli effetti del cambiamento climatico, che nessuno ormai più mette in discussione, e che trovano semmai i pochi elementi di dubbio riguardo al fatto che vi sia una sola e completa responsabilità dell’uomo nell’averli innescati. Scenari che derivano da analisi e studi condotti dal panel intergovernativo dell’Ipcc, che è appunto un organismo formato da oltre 2500 scienziati di tutto il mondo che sta sotto l’egida dell’Onu.

Senza una strategia globale in tal senso, che riconduca ogni scelta alla sostenibilità, analizzandone i costi e i benefici, diventano inutili le conferenze, gli incontri, i vertici e i protocolli, perché tutto sarà lasciato nelle mani del mercato. E il mercato, sempre più finanziarizzato, va nella linea tracciata dalle incessanti analisi congiunturali e dal Pil procapite, che se ne sbatte della disponibilità delle risorse, del benessere dell’individuo, del futuro delle generazioni successive, un mercato – come insegna Fidelity - che inseguirà sempre finché ce ne saranno nuovi territori «ricchi di opportunità che aspettano solo di essere scoperte», prelevate, saccheggiate, usate e consumate.

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