[21/03/2006] Rifiuti

Fra governo dei rifiuti e rifiuto del governo

FIRENZE. E’ ormai un assunto delle politiche comunitarie sulla gestione dei rifiuti il fatto che questo problema è affrontabile strategicamente soltanto in un approccio di governo integrato economia-ecologia. La tendenza secolare, programmatica e sistematica, delle economie cosiddette più avanzate a considerare il proprio sviluppo attraverso l’aumento progressivo dei prelievi in natura di materie prime, di volumi prodotti e dei consumi di ogni ordine e grado (la crescita economica) induce ad un aumento dei rifiuti di ogni tipologia. Vi è una diretta correlazione, dunque, fra aumento del Pil ed aumento dei rifiuti.

Ed essendo considerato, il Pil, il principale (quando non l’unico) indicatore di benessere, si potrebbe affermare che vi è una correlazione diretta fra aumento del benessere e aumento dei rifiuti. Non a caso, la produzione di rifiuti procapite, registra i picchi più alti negli Usa, seguono l’Europa occidentale, segue l’Italia e segue, nel nostro Paese, il meridione. Con l’avvento della «società dell’informazione», agli inizi degli anni ’90, alcuni «futurologi» ipotizzarono una progressiva dematerializzazione dell’economia e, di conseguenza, un progressivo e inerziale disaccoppiamento fra Pil e produzione di rifiuti.

Il dispiegamento della new economy, pur fra «bolle» (e balle) e contraddizioni, ci consegna un amaro risveglio: l’aumento dei rifiuti continua in perfetta sintonia con il Pil. Anzi, per alcune tipologie anche con andamenti superiori agli aumenti del Pil. Infatti, proprio il frutto di politiche di mitigazione degli impatti (depurazione di emissioni in aria e in acqua) hanno indotto ad aumenti di produzione dei rifiuti e alla previsione, da parte dell’Agenzia europea per l’ambiente, di considerevoli altri aumenti al 2010. Il fatto poi che la società dell’informazione si nutra anche di hardware e che questo abbia una obsolescenza programmata in 18 mesi contribuisce a elidere altri minori vantaggi derivati.

Ma il punto dolente è rappresentato dal fatto che la produzione dei Paesi avanzati non risponde più solo ai bisogni, bensì ai desideri. Il sistema moda, quello della pubblicità, la saturazione dei mercati con la necessità di rinnovare continuamente i prodotti sono tutti elementi che, se messi in relazione al problema rifiuti (ma questa connessione sfugge spesso ai ricercatori quanto agli economisti, quanto ai rifiutologi), danno la dimensione di come gli sforzi encomiabili di minimizzazione di utilizzo di materie prime per unità di prodotto (o di imballaggio) sono vanificati dalla necessità di aumentare le quantità di produzione e consumi.

Le semplificazioni ideologiche tendenti a considerare le pratiche di minimizzazione e di riciclo come risolutive tout-court del problema rifiuti appaiono in tutta la loro contraddittorietà proprio in rapporto a quanto evidenziato. Ciò non significa affatto che tali pratiche sono inutili, anzi. Significa che debbono scendere dall’universo delle intenzioni a quello delle pratiche singole e collettive. In questa traduzione, tutto il «sistema pubblico allargato» ha un ruolo cruciale. La spesa pubblica allargata è considerata, secondo le stime dei vari Paesi europei, dal 17 al 25% dell’intera spesa per consumi componente il Pil.

Ovvio che una sua torsione in direzione del «green procurement», del «design for environment» e di quant’altro può essere fatto per l’efficienza e la dematerializzazione avrebbe enormi influenze sul mercato. Ovvio che ciò avrebbe una sensibile funzione nello sforzo di minimizzazione della produzione dei rifiuti. E infatti la proposta di decisione del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce il Programma comunitario di azione in materia di ambiente, anche al capitolo rifiuti, assume le buone pratiche di comportamento delle istituzioni come elemento che può determinare una svolta dopo i fallimenti del programma precedente.

Ciò detto, non sfuggirà ai partecipanti al campionato europeo dell’innovazione e della modernizzazione che i cardini dello sviluppo e dell’impresa sostenibile sono individuati, proprio dalla comunità europea, in un mix di regole, controlli e buone pratiche da incentivare, senza le quali il mercato continuerebbe inerzialmente a esternalizzare i costi ambientali.

Quello dei rifiuti quindi è, lo si voglia o no, un mercato che è nato e può svilupparsi solo attraverso regole, norme e obiettivi che solo le istituzioni possono porsi. Parliamo di rifiuti in generale. Cioè di tutti i rifiuti. Quelli di processo (sistematicamente ignorati) e quelli di prodotto. Quali che siano le classificazioni giuridiche e normative. Urbani, speciali, pericolosi. Invece, da anni, c’è una sorta di conventio ad excludendum fra tutti i soggetti interessati (comitati inclusi) a non prendere in considerazione la pianificazione dei rifiuti speciali. Salvo carsiche ed estemporanee elucubrazioni su fantomatici controlli satellitari che dovrebbero scoprire l’acqua calda (cioè che la produzione di rifiuti esubera di tre volte la disponibilità impiantistica di recupero-trattamento e smaltimento), né il Decreto Ronchi, né il Testo Unico recente fanno menzione della necessità di pianificare i rifiuti speciali.

La Toscana che nel 1999, prima e unica regione, elaborò un Piano per questa tipologia di rifiuti, non ha fatto altro che metterlo in un cassetto. Chiuso a chiave, a quanto pare. Nella lunga discussione e nella relazione che è uscita dal lavoro della Commissione ambiente e territorio del Consiglio Regionale emerge l’assenza di cognizione pressoché assoluta dei contenuti di quel Piano e delle proposte concrete che li si facevano. Infatti non se ne riprende neanche una.

Ad esempio, si dice, di passaggio, che in Toscana non c’è un luogo uno dove si possano conferire rifiuti pericolosi ma ci si guarda bene dal riprendere le indicazioni del Piano regionale: ogni discarica esistente deve realizzare un modulo per allocare i rifiuti pericolosi. Siamo a quasi sette anni da quel lavoro fatto sul campo. E la discussione ricomincia… dalla fine. Dai controlli (questa volta satellitari) e senza, per giunta, indicare minimamente la necessità di controllare le fonti di produzione, fino ad oggi completamente ignorate. Ma il dovere del governo, di qualsiasi governo, non dovrebbe essere quello di fornire soluzioni?

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