[21/03/2006] Parchi

La cassazione condanna un bracconiere di Casale Marittimo

CECINA (Livorno) – Nel 2004 la sezione distaccata di Cecina del Tribunale di Livorno assolse un cacciatore dal reato di caccia abusiva anche se secondo l’accusa «esercitava la caccia in periodo di divieto generale e con mezzi non consentiti quali una gabbia e un cavetto in acciaio per la cattura degli ungulati, in Casale Marittimo il 13.2.2003».

Contro la sentenza fece appello il procuratore generale e la corte d’appello di Firenze nel 2005 ritenne colpevole il bracconiere e lo condannò. L’imputato impugnò la sentenza e fece ricorso alla Corte di Cassazione.

Che però ha dato una delusione al cacciatore di Casale Marittimo: il ricorso, secondo la Corte «va dichiarato inammissibile perché le censure proposte sono manifestamente infondate e non consentite in sede legittima. Infatti la sentenza impugnata ha ritenuto che l’attuale ricorrente "conosceva perfettamente l’esistenza della trappola e con gli attrezzi necessari (granoturco e cavetto intrecciato di acciaio) la stava preparando per la cattura di istrici". Quindi il bracconiere cacciava una specie protetta e non cacciabile e addirittura "la trappola distava 80 metri dalla casa palesemente nella disponibilità dell’imputato"».

E la Corte conclude la sua analisi dicendo che «La valutazione delle circostanze di fatto è quindi per un verso esente dai denunciati vizi logici e, per l’altro correttamente allineata con la citata giurisprudenza di questa Corte (in base alla quale la nozione di esercizio di attività venatoria usata dalla l. 157/92 comprende non solo l’effettiva cattura e uccisione della selvaggina, ma anche ogni attività preliminare e la complessiva organizzazione dei mezzi e, di conseguenza, qualsiasi attività, desumibile dall’insieme delle circostanze di tempo e di luogo, cvhe appaia diretta al suindicato fine)».

La sentenza della terza sezione della Corte di Cassazione chiarisce che la predisposizione e l’armamento di una trappola e la detenzione degli attrezzi necessari alla cattura degli animali rientrano nell’esercizio dell’attività venatoria e quindi il bracconiere è stato condannato al pagamento delle spese processuali e ad un’ammenda di 500 euro.

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