[10/12/2007] Acqua

La Nestlè dimentica la diversità di accesso all´acqua tra nord e sud

FIRENZE. E’ proprio vero che ognuno tira l’acqua al suo mulino. Ieri sul Sole 24 ore è stato riportato un ampio stralcio di un intervento sul tema della risorsa idrica di Peter Brabeck-Letmathe (presidente e amministratore delegato di Nestlé), apparso su “Atlantide”, il trimestrale della Fondazione sulla sussidiarietà. L’analisi non porta elementi di novità. L’acqua è già oggi una risorsa scarsa, le falde si abbassano, i fiumi sono in crisi, sono grandi i consumi dell’agricoltura che su scala globale è il settore più idroesigente: consuma il 70% di acqua con una media di un litro per ogni caloria. Prospettive drammatiche, quando probabilmente nel 2025 saremo 8,5 miliardi di persone di cui circa 4, secondo le previsioni, saranno in carenza idrica.

L’impronta idrica di una nazione, indicatore proposto dall’Unesco, è “la quantità totale di acqua utilizzata per produrre beni e servizi consumati all’interno della nazione stessa”. Gli Usa hanno un’impronta idrica media di 2480 m3 annui, mentre la Cina ha un’impronta di 700 m3 annui pro capite. Ma in Cina, come in altri Paesi emergenti, la crescita economica segue ritmi esponenziali, si vivrà mediamente meglio e si passerà ad altro tipo di alimentazione con più proteine animali. Ma ci vogliono 16000 litri di acqua per un kg di carne contro i 1350 per un Kg di riso. Questo è un altro aspetto riportato dal presidente di Nestlé: vi sarà sempre maggiore richiesta di acqua per produrre proteine animali e ora anche per produrre biocarburanti “per ogni litro di biocarburanti sono necessari tra i tremila e cinquemila litri di acqua”.

A nostro avviso Brabeck-Letmathe non sottolinea però abbastanza la diversità di accesso all’acqua tra i Paesi del Nord e quelli del Sud mondo: nel Rapporto Undp sullo sviluppo umano 2006 si ricorda che mentre una persona, ad esempio negli Stati Uniti, utilizza 50 litri d’acqua ogni giorno solo per scaricare il water, molte persone nei paesi più poveri sopravvivono con meno di cinque litri di acqua contaminata al giorno. C’è un 20% di popolazione che consuma l’80% delle risorse del pianeta (acqua compresa). E nel contesto, in particolare nei Paesi del Sud del mondo, le multinazionali come la Coca Cola o la stessa Nestlè fanno affari: a Soweto nelle bidonville se non vuoi far morire i bambini di diarrea devi acquistare il boccione di Bonacqua della Coca Cola che incide per il 20-30% del reddito, mentre pochi metri più in là si annaffiano i prati all’inglese, come ci ricorda nel suo libro Emilio Molinari (presidente del Comitato italiano del Contratto mondiale sull’acqua).

Brabeck-Letmathe afferma “Quando un bene scarseggia dobbiamo cercare di moltiplicarlo e consegnarlo nelle mani di chi pensa imprenditorialmente: questo vale anche per l’acqua”. Là dove il sistema di controllo lascia molto a desiderare o è assente, dove le istituzioni fanno direttamente affari con i grandi gruppo privati, mantenere lo status quo e non migliorare la qualità dell’acqua e del servizio, certamente conviene alle multinazionali per incrementare i già lauti guadagni. Ma anche in Paesi del nord del mondo (vedi l’Italia) dove l’acqua è pubblica per legge, gli usi, le concessioni la rendono una risorsa utilizzata in modo privatistico. Proprio nel settore delle acque minerali dove la Nestlè è leader, le sorgenti sono concesse per pochi euro, mentre l’acqua, dopo l’imbottigliamento viene messa sul mercato a costi che sono dalle 300 alle 1000 volte superiori rispetto all’acqua del rubinetto che pure spesso è di ottima qualità. Le responsabilità di chi stabilisce le regole e dovrebbe controllare non sono da poco in questo caso.

L’acqua è una merce come le altre secondo il presidente della Nestlè e deve stare sul mercato: è il mercato che ne regola il costo e ne determina un uso più razionale secondo la tesi. Eppure se una merce sta sul mercato più se ne vende e più si guadagna. L’acqua certamente ha un suo valore e deve avere un costo adeguato (non “regalata” come si fa spesso in agricoltura): lo stesso servizio idrico ha dei costi ma è un servizio di interesse generale e quindi deve essere regolato e gestito da chi può garantire l’interesse della collettività non dimenticando mai la natura dell’acqua come bene comune. Il Cile è portato ad esempio dal presidente della Nestlè: l’acqua sta sul mercato e ci sono diritti idrici appartenenti a privati o all’ente pubblico che sono scambiabili e hanno reso l’utilizzo dell’acqua specialmente in agricoltura più efficiente.

Eppure proprio i piccoli agricoltori e i contadini stanno facendo battaglie contro alcune multinazionali (questa volta nel campo delle estrazioni minerarie) che per incrementare le loro capacità produttive stanno costruendo dighe gigantesche che escludono dalla possibilità di accesso alla risorsa le comunità di intere vallate, agricoltori compresi. La proprietà e le regole, dei beni comuni e indispensabili per la vita come l’acqua, non le può stabilire il mercato né al Nord né al Sud del mondo pena l’esclusione dall’accesso di chi si trova in posizione più debole.

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