[11/12/2007] Comunicati

Watson e la biodiversità umana

ROMA. A voler prendere la notizia dal suo verso più ironico, potremmo dire che, per la dura legge del contrappasso, James Watson (Nella foto) paga pegno al suo Dna. Aveva detto che le popolazioni africane sono meno intelligenti delle popolazioni indoeuropee per ragioni genetiche. E ora la società islandese DeCode Genetics scopre che proprio lui, James Watson, ha il 16% di “geni africani recenti”, contro l’1% degli indoeuropei medi. Ecco, dunque, il paradosso: o lo scopritore, insieme a Francis Crick, della struttura a doppia elica del Dna ha detto una cosa poco intelligente, oppure ha ragione e allora il grande genetista è meno intelligente di quanto pensi. Naturalmente, evidenze alla mano, noi votiamo per la prima opzione.

Ma al di là della facile battuta – che comunque demolisce con una bella picconata un pregiudizio fondato su un’idea deterministica della genetica – la notizia del sequenziamento dell’intero Dna di James Watson ha molti utili insegnamenti da darci in termini di biodiversità umana. Che proviamo a riassumere così: anche se ogni uomo è irrimediabilmente differente da ogni altro, non esistono gruppi di umani così diversi tra loro da formare razze distinte.

Il fatto che un premio Nobel bianco, anglosassone, con gli occhi inconfondibilmente azzurri sia il “fenotipo” di un genoma formato per il 16% da “geni africani recenti” e per il 9% da “geni asiatici recenti” ci conferma tutto quanto già sapevamo con l’immediatezza dei numeri. È come se Watson avesse avuto un bisnonno nero africano e un bisbisnonno asiatico. I geni in questione sono infatti prevalenti in alcuni gruppi umani che abitano l’Africa e l’Asia.

Il fatto che la famiglia Watson sia il frutto di incroci recentissimi tra bianchi, neri e asiatici è la dimostrazione che le relazioni tra gruppi umani sono state, nel corso del tempo, così continue e intense da impedire una netta distinzione genetica e, quindi, la formazione di quelle razze – gruppi portatori di caratteri ereditari tipici – che vediamo per esempio tra i cani. Ciò significa che in gruppo umano la diversità interna – tra due membri –può essere ben maggiore della variabilità genetica tra la media di quel gruppo e la media di qualsiasi altro gruppo umano.

Detta in altri termini: non si può dire in alcun modo che un gruppo (una razza) è geneticamente più intelligente di un altro (ammesso, ma non concesso, che esista un singolo carattere che possiamo definire intelligenza). Il che espone chi dice il contrario alla beffarda smentita dei fatti: le razze umane non esistono. E quindi non esiste una razza umana più intelligente di un’altra.

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