[28/12/2007] Consumo

Il Pil cinese e il mercato infinito

LIVORNO. Sei imprese della provincia di Zhejiang, nell’est della Cina, ieri hanno pubblicato una lettera di scuse sull’Hangzhou Daily, dichiarandosi desolate per aver inquinato l’ambiente e dicendosi pronte a prendere misure per evitare che questo si ripeta. Si tratta di due cartiere, due fabbriche di plastiche, una tipografia e una tintoria che naturalmente non hanno fatto questo atto pubblico di contrizione di propria volontà, ma perché obbligate dall’ufficio municipale per la protezione dell’ambiente di Hanzhou che le ha anche condannate a pagare multe salate.

«E’ stato constatato – scrivono le 6 aziende – che abbiamo emesso recentemente un inquinamento eccessivo, dovuto al fatto che non abbiamo prestato sufficientemente attenzione alla protezione dell’ambiente, né totalmente rispettato la legge e i regolamenti e l’installazione del trattamento degli inquinanti non è stata correttamente attivata».

Una specie di autocritica di sapore maoista in epoca di “sviluppo armonioso”, che vede al posto degli intellettuali revisionisti e dei borghesi la nuova locomotiva cinese, quelle aziende che hanno trascinato il Pil del Paese ad un aumento dell’11,5% nel 2007.

Una crescita che per il prossimo anno dovrà rallentare perché la Cina ha bisogno di “calmarsi” di fronte alla necessità di resettare uno sviluppo che ha prodotto disastri ambientali e sanitari e che viene eroso da un’inflazione che, nonostante il ferreo controllo sul corso dello Yuan, ha raggiunto il 4,7%, limando i già miseri salari sui quali crescita e concorrenzialità cinese si basano, soprattutto perché è cresciuto ancora di più, il 6,9%, il costo dei beni di prima necessità, vitali per la massa di operai e contadini inurbati che sostiene le due cifre del Pil cinese.

Il boom cinese, magnificato anche da noi come esempio da seguire e copiare di dinamismo e concorrenza senza fastidiosi lacci e laccioli, dietro la facciata di fulminea efficienza mostra la corda e le crepe comuni a tutte le società in rapida crescita, tutti i pericoli con cui le società più avanzate hanno già fatto e continuano a fare i conti.

E non è un caso se le stime della Banca mondiale, che reputano l’aumento percentuale del Pil cinese sovrastimato di almeno il 40%, non sono state riprese da quasi nessuno, così come le constatazioni, lapalissiane ma rimosse, che se è vero che un operaio cinese guadagna dieci volte meno di un lavoratore statunitense, è anche vero che la produttività di un americano è molto più alta di quella di un cinese e che la concorrenza cinese è basata (per quanto ancora?) sui bassi costi della manodopera, sulle scarse attenzioni per l’ambiente, sull’assenza di democrazia dentro e fuori i luoghi di lavoro e sulla mancanza di ammortizzatori sociali.

Proporre il modello cinese di rapporti di lavoro e produzione in occidente è una follia della quale sono coscienti anche coloro che agitano il pericolo cinese come uno spauracchio e che sanno bene che l’1% in più del Pil italiano vale molto di più in termini reali se rapportato alle cifre pur stratosferiche della Cina e degli altri dragoni e tigri dell’Asia. Perché la situazione di partenza è diversissima e quella sedimentata in anni di crescita occidentale continua lo è ancora di più.

Non è un caso se da noi si ripropone una questione salariale, visto che i lavoratori sono anche consumatori (qualcuno direbbe ormai soprattutto) e che se la base interna del consumo si riduce prima ci si rivolge ai prodotti di basso costo e poi i consumi calano.

La speranza, o l’incubo, di un occidente dove smerciare merci all’infinito non sembra essere possibile, la competizione con la Cina e l’India in crescita è probabilmente impossibile se confrontati i nostri mercati interni saturi ed i loro ancora in gran parte “vergini”, la loro possibilità di crescita basandosi su una manodopera abbondante, disponibile, senza molte difese, quasi una fase pionieristica nella quale tutto, o quasi tutto può essere accettato. Non è un caso neppure che lo stesso concetto di “povertà” assuma un significato ed un valore diverso se rapportato ai Paesi in via di sviluppo ed alle nostre realtà: ogni operaio cinese, vietnamita e filippino pagherebbe in anni di vita per essere povero come un nostro lavoratore, per avere a disposizione strumenti, consumi e servizi che noi diamo per contati, obbligatori, che non prendiamo nemmeno come indicatori di ricchezza diffusa.

Forse l’occidente ricco dovrebbe cominciare ad essere più sincero con sé stesso, a smetterla di lanciare invidiosi gridi di stupore davanti a cifre di crescita di Paesi in via di sviluppo o ancora più poveri: il più 7 - 8% di alcuni Stati africani, come ci dice l’inascoltata Banca mondiale, dal punto di vista dell’economia reale e della produzione di merci e servizi, non è nulla rispetto ad una frazione di punto che in Italia fa gridare al blocco della crescita, alla recessione, al disastro economico.

Questo è ancora, e lo sarà per molto, il mondo nel quale il 20% più ricco detiene l’80% delle risorse, dove i 4 o 5 uomini più ricchi del pianeta mettono insieme tanta ricchezza da assommare il Pil di qualche decina di Stati, magari di quelli con crescite a due cifre, che dal nulla sono finalmente arrivati al pochissimo.


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