[27/03/2006] Consumo

Il naturale conflitto fra pubblicità e educazione all’ambiente

SIENA. Consumo è parola ambigua, fin dai suoi riferimenti etimologici. Deriva dal latino consumere (eliminare, bruciare). Per molti prodotti, il consumo inteso come uso della merce equivale alla sua distruzione (basti pensare ai generi alimentari). La pubblicità sottintende spesso questo significato in quanto la sua conseguenza è la necessità di un nuovo acquisto appena effettuato il consumo (e la motivazione economica della pubblicità non è il godimento dei beni, ma il loro acquisto). Il consumo (atto puramente fisico o semiotico) interessa in definitiva solo come presupposto di un atto economico, l’acquisto.
Nei casi in cui la natura del bene non comporti l’identificazione del consumo con la distruzione del prodotto, ad esempio per le merci classificate come beni di consumo durevole (automobili, elettrodomestici, ma anche indumenti), o per i servizi altrettanto durevoli (ad esempio assicurazioni, abbonamenti telefonici), specialmente in un mercato saturo come quello dei Paesi occidentali, accade che l’impegno della pubblicità vada nel senso di provocare un consumo simbolico di questi beni, la cui forma tipica è la moda.
La distruzione della merce legata al suo uso non avviene cioè tanto sul piano fisico, ma proprio su quello della sua valorizzazione, il cui compito è caratteristico della pubblicità. Come per i modelli d’automobile, così in generale la valorizzazione di un nuovo bene di un certo tipo valorizza contemporaneamente quello vecchio che gli è analogo, se non altro sul piano del confronto. Si parla in questi casi di obsolescenza pianificata.

Una delle funzioni economiche della pubblicità, in quanto valorizzazione del consumo, è proprio quella di provocare artificialmente l’usura semiotica delle merci già acquistate e consumate solo in parte.
Ciò che è importante sottolineare è il carattere individuale, privato, di questi meccanismi. (mentre, ad esempio, il carattere dello smaltimento dei rifiuti derivanti da questi meccanismi, è pubblico!) e considerarne le implicazioni molto diverse tra di loro. La natura mediatica del discorso pubblicitario, che è del tutto opposta e speculare a quella dell’educazione ambientale a riciclare e a non consumare, lo destina tipicamente a una struttura comunicativa nella quale il messaggio è ricevuto individualmente, o al massimo nella dimensione familiare. Questo è vero non solo sul piano sociologico dell’analisi empirica della fruizione ma soprattutto dal punto di vista dell’analisi semiotica: i messaggi pubblicitari, facendo leva soprattutto sul desiderio (e non sul bisogno, neanche indotto) e mirando spesso a valorizzazioni di tipo emozionale (invece che razionale come l’educazione ambientale) parlano a ciascun lettore in quanto individuo, come singolo, lo interpellano in quella dimensione privata per cui egli possa identificarsi con le storie raccontate o proiettarsi nel luogo incantato della pubblicità.

E’ stato calcolato che una famiglia con un reddito mensile di 3.000 euro, con 600 euro che se ne vanno tra imposte e risparmio, spende 2.400 euro in beni e servizi. Di questi, 1.200 euro vanno a remunerare attività di pubblicità. La crescita del valore economico degli acquisti individuali, o della propensione al consumo, è dunque una delle condizioni di equilibrio dell’economia contemporanea. E nessuna parte politica, che si voglia candidare al governo del proprio Paese, quale che esso sia, si propone di rompere questo equilibrio.
Uno dei risultati complessivi che ci si attende dal discorso pubblicitario è dunque l’aumento dei consumi individuali mentre l’educazione all’ambiente e a un consumerismo responsabile, agiscono collettivamente esattamente con obiettivi opposti. Ma sono i primi i soli ad essere pubblicizzati perché sono i soli a dipendere dalle scelte del singolo consumatore. E’ importante vedere la differenza fra il discorso politico, che può certamente comprendere fra i suoi temi l’adozione di certi consumi (o fruizione di servizi) collettivi, che partono da una decisione collettiva, sulla base di un progetto, e quello pubblicitario, che si svolge sempre a livello individuale anche quando si tratta di quella ambigua realtà che è la «pubblicità sociale» (12 miliardi di dollari/anno vengono spesi negli Usa per acquistare cibo per animali domestici).

La valorizzazione pubblicitaria avviene sempre a livello individuale, in vista di un atto (di solito di consumo) che è a sua volta sostanzialmente individuale, fondato sull’ottica del desiderio più che su quella della previsione razionale, sull’identificazione soggettiva piuttosto che sul calcolo delle priorità sociali. Al contrario il consumo pubblico (o la fruizione di servizi) si fonda su calcoli di opportunità collettivi, che possono essere più o meno corretti, più o meno logici, ma che nella loro logica risentono di una analisi razionale che prova a mettere in relazione bisogni e risorse.

Si potrebbe asserire che il senso sociale principale del discorso pubblicitario consiste proprio nel distinguere, nelle procedure e nelle motivazioni, i consumi privati da quelli collettivi, privilegiando i primi.
E si potrebbe asserire, anche, e di conseguenza, che la contraddizione fra consumi privati e mitigazione degli impatti da questi prodotti (emissioni in aria e in acqua, rifiuti, cura di patologie derivate) non è affrontabile senza padroneggiarne (e socializzarne) il nesso inscindibile di causa-effetto. E non è, parimenti, pensabile di affrontare questa contraddizione pensando di azzerare gli effetti senza scalfire le cause o, peggio, esasperando le cause.

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