[30/01/2008] Consumo

Greenpeace e scienziati Usa e canadesi: «Attenti all’acquacoltura e al ciclo dell’azoto»

LIVORNO. Greenpeace ha presentato al Seafood Summit 2008, la fiera mondiale dell’acquacoltura che si è appena conclusa a Barcellona, un rapporto, elaborato dai suoi esperti dell’università di Exeter, che evidenzia i rischi degli attuali metodi di allevamento di pesci e crostacei. Il Rapporto indica non solo i problemi ma anche possibili soluzioni perché «l’acquacoltura la smetta di fare disastri e si caratterizzi come un sistema di produzione a misura d’uomo».

«Oggi – spiega il rapporto - l’acquacoltura è il comparto della produzione alimentare (di origine animale) con la crescita maggiore e fornisce il 43% del pesce per uso alimentare. La crescita è stata notevole sia per numero di specie allevate (il 97% delle specie allevate oggi (circa 430 specie, quindi) sono state addomesticate solo negli ultimi 100 anni) che per quantità di prodotto: i dati FAO affermano che dal 2000 al 2005 la produzione mondiale di acquacoltura è passata da 35,5 a 47,8 milioni di tonnellate (Mt) con un incremento del 34,65% che è stato maggiore per le specie d’acqua dolce (da 21,2 a 28,9 Mt: +36,32%) rispetto a quelle di mare (da 15,4 a 18,9 Mt: + 32,17%)». Alessandro Giannì, responsabile della campagna mare di Greenpeace, spiega che «Oggi, l’acquacoltura non è la panacea che molti indicano per risolvere il problema dei rifornimenti di pesce, diminuiti a causa dalla pesca eccessiva. In tutto il mondo, l’acquacoltura spesso causa inquinamento, usa sostanze chimiche e farmaceutiche pericolose e viola i diritti umani, compresa la sicurezza dei lavoratori».

Uno dei problemi sarebbe la farina di pesce, dalla quale l’acquacoltura è dipendente per fornire cibo alle specie ittiche pregiate che finiscono sui mercati più ricchi: «Per ‘produrre’ un chilo di pesce d’acquacoltura sono necessari mediamente tra 2,5 e 5 kg di pesce trasformato in farina o olio – spiega il rapporto - Per alcune specie, il consumo è molto maggiore: per ingrassare di un chilogrammo un tonno in uno dei troppi impianti del Mediterraneo, si impiegano mediamente 20 kg di pesce scongelato. In altre parole, spesso l’acquacoltura inasprisce il problema della pesca eccessiva che, in teoria, dovrebbe risolvere».

Gli allevamenti più impattanti sarebbero quello dei gamberi tropicali, del salmone, del tonno rosso del Mediterraneo e della tilapia un pesce tropicale di acqua dolce.
Il rapporto si chiude con alcune raccomandazioni di Greenpeace che «non considera sostenibile l’allevamento di specie con mangimi contenenti farina o olio di pesce che deriva da una pesca non sostenibile. In ogni caso, l’uso di questi mangimi non è sostenibile se il rapporto di conversione (tra mangime usato e pesce prodotto) è inferiore ad uno e c’è quindi una perdita di proteine animali. Dovrebbero essere utilizzati mangimi provenienti da produzioni agricole sostenibili e i grassi omega 3 dovrebbero derivare da prodotti vegetali». Greenpeace non considera sostenibile l’acquacoltura che produce, con scarichi e reflui,

impatti negativi sull’ambiente circostante. Occorre incentivare l’uso di sistemi chiusi. Pollice verso anche per l’acquacoltura che causa effetti negativi alla flora e fauna locale o rappresenta un rischio per le popolazioni selvatiche, per quella che dipende dalla raccolta di esemplari giovanili per l’allevamento. Gli ambientalisti chiedono che sia vietato l’allevamento di pesci transgenici e che la densità degli allevamenti sia tale da minimizzare il rischio e la trasmissione di malattie, minimizzando necessità di trattamenti farmacologici. Greenpeace non considera sostenibile l’acquacoltura che distrugge o erode le risorse locali, come l’acqua potabile o le foreste a mangrovie, minaccia la salute umana, non assicura il benessere economico e sociale delle comunità locali.

Al rapporto di Greenpeace viene oggi un altro sostegno scientifico: in un articolo pubblicato su “Nature Geoscience”, Roxane Maranger e Nina Caraco dell’università di Montreal spiegano che gli impianti di acquacoltura alterano il ciclo dell’azoto e sono tra i responsabili del declino della qualità delle acque costiere. Lo studio, curato da ricercatori Usa e canadesi, ha esaminato per la prima volta 58 regioni costiere del pianeta ed evidenzia come la mancanza di una gestione sostenibile possa avere estese conseguenze sugli ecosistemi.
I ricercatori spiegano che «Il pesce accumula azoto come biomassa, e quando gli esseri umani lo pescano per consumarlo, riportano parte di questo azoto terrestre alla terraferma. Sebbene l’azoto sia essenziale per animali e piante che vivono negli oceani, il trasferimento di azoto operato dall’uomo dalla terraferma verso gli oceani ha determinato un innalzamento brusco dei livelli di questo elemento nelle acque costiere nell’ultimo decennio. I fertilizzanti ricchi di azoto finiscono poi nei mari, attraverso i fiumi. I resti di fertilizzanti rappresentano una significativa fonte di inquinamento da azoto per molte regioni costiere in tutto il mondo».

Secondo il rapporto, 40 anni fa «gli allevamenti di pesce rimuovevano circa il 60% dell’azoto presente negli oceani costieri che proveniva da fertilizzanti. Oggi questa percentuale è scesa al 20%». E Maranger spiega che «dal punto di vista storico non è una buona notizia. L’aumento dei livelli di azoto negli ecosistemi costieri in tutto il mondo ha come effetto l’eccessiva crescita vegetale la mancanza di ossigeno, nonché la drastica riduzione della qualità dell’acqua e delle popolazioni di pesci e di altri animali».


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