[04/03/2008] Comunicati

Ancora morti bianche, Buiatti: «Colpa del fanatismo della crescita»

LIVORNO. Ancora morti sul lavoro. Ancora incidenti, vedi la tragedia Molfetta, che si sarebbero potuti evitare. Ancora proclami sulla necessità di intervenire subito, di più e meglio per garantire la sicurezza dei lavoratori. Ancora l’impegno a varare subito il pacchetto sicurezza preparato dal governo. C’è chi si chiede come sia possibile, nel mondo ipertecnologico non essere in grado di impedire che certi incidenti sul lavoro possano costare la vita. Che non si trovi il modo di evitarli, con maggiore formazione, con l’ausilio di sistemi di segnalazione in grado di avvertire chi lavora che non sta adoperando tutti i sistemi di sicurezza necessari. Ma bastano questi provvedimenti a cambiare l’attuale impostazione del modi di lavorare? Bastano a garantire che non si debba morire per vivere?

Ne abbiamo parlato con Marcello Buiatti (Nella foto), presidente nazionale dell’associazione Ambiente e lavoro.

Come è possibile impedire che si muoia ancora sui luoghi di lavoro?
«Prima di tutto il concetto fondamentale credo che sia di tipo etico, nel senso che stiamo vivendo una vita virtuale in cui hanno importanza una serie di cose che lo avrebbero invece in maniera relativa. Ne è un esempio il movimento finanziario con cui non intendo necessariamente la quantità di soldi per comprare cose utili, ma i soldi virtuali che regolano il sistema finanziario attuale. Soltanto il 12% del flusso monetario è coperto da merci, sono dunque solo soldi on line, nemmeno in carta stampata. Da qui una accelerazione continua verso il consumo per garantire un aumento della velocità della circolazione monetaria, e del resto il Pil non è altro che questo. Ciò significa che l’investimento anche in termini di vite umana sta calando e gli essere umani sono sempre più spendibili al pari dei soldi in se stessi. Contano ormai più i soldi on line delle vite umane per mantenere questo volano in continua accelerazione. Questo significa che sta vincendo il criterio di produzione per quantità e non per qualità. E che sempre meno il valore d’uso ha un significato ben preciso. Anche l’innovazione è volta a questo, serve cioè non a migliorare processi, o la vita degli esseri umani, ma ad aumentare la circolazione monetaria nelle tasche di qualcuno».

Crescita come totem, quindi?
«Fanatismo della crescita questo è, perché si fa confusione tra crescita di produzione e crescita della moneta. Si cresce di più giocando in borsa e fornendo servizi immateriali, si cresce sempre di più alzando i prezzi che non fornendo qualità. Il ragionamento della crescita deve essere cambiato in termini di crescita per lo sviluppo del benessere del genere umano tutto. La produzione ora conta soltanto perché si vende e non perché serve al benessere degli esseri umani. Per cui la qualità non conta, ma non contano nemmeno i lavoratori, anzi sono spesso loro per primi a sposare questo concetto della crescita: avere di più per comprare di più non il necessario, naturalmente, ma cose inutili per essere al passo con i tempi».

Quindi serve una riqualificazione culturale?
«Bisogna ricominciare a far ripartire una nuova cultura che sia legata un po’ di più alla vita materiale che viviamo per arrivare ad una vita in cui benessere vuol dire stare bene non tanto non avere soldi per farlo. Tenendo presente che la felicità percepita, l’unica che ci può essere, è legata al reddito procapite solo per quanto riguarda un range compreso tra 0 e 5000 euro l’anno, che è il reddito di sussistenza. Oltre questo non è legata al reddito. Gli Usa hanno aumentato il reddito procapite ma il livello di felicità degli americani è andato scemando. Gli altri fattori sono i rapporti con gli altri esseri umani, per cui il fatto che le generazioni che hanno tra 15 e 20 anni non comunichino personalmente ma via rete è fonte di infelicità. E lo è molto di più del fatto di avere la possibilità di comprare le scarpe dell’ultima marca alla moda che ti caratterizzano all’interno di un clan. Ci sono sempre più forme di infelicità perché si scambia il valore del benessere con quello del vivere bene. Questo non è decodificabile con un decreto legge ma è un segnale che va dato alle nuove generazioni, devono riappropriarsi del concetto che sono fatti di carne e sangue, di materia, come il loro cervello. Non di vita virtuale. Questo necessita di una riqualificazione culturale, di ritrovare una scala di valori che non sia basata solo sul possesso».

Certo, ma una rivoluzione culturale ha bisogno di tempi lunghi e nel frattempo?
«I tempi sono lunghissimi, perché bisogna ricominciare a riscrivere i programmi delle scuole, fare formazione ecc. Nel frattempo l’unico modo è cominciare a scrivere queste cose nei programmi dei partiti, mettere riferimenti a come far star bene la gente, a come riscrivere il concetto di crescita che non sia legato solo al Pil, ma al vivere bene. Cosa che i programmi non contengono perché si adeguano a quello che credono sia il volere della gente, ma bisogno ricominciare a descrivere modi diversi di prefigurare il futuro, parlare di felicità e non di soldi per raggiungerla. E poi ci vuole la mano dura. Ben venga qualsiasi azioni punitiva che combatte gli sprechi, dall’acqua al cibo alla vita umana. E sulla questione delle vite sprecate sul lavoro, ben venga un testo unico sulla sicurezza senza però affidarsi alla tecnologia che non serve per salvare il mondo e neanche a garantire la sicurezza sul lavoro. La tecnologia sul lavoro esiste già e basterebbe utilizzarla, ma non servirà mai a lungo per cambiare il resto. Le forze politiche dovrebbero scrivere regole rigide e prevedere poi forti sanzioni pecuniarie per chi non le rispetta. Dato che è il valore monetario quello che guida gli interessi, su quello bisogna intervenire, fin quando non costerà assai caro non rispettare le regole, questo avremo».


Torna all'archivio