[10/03/2008] Consumo

I consumi calano? Solo quelli dei poveri, il lusso non conosce crisi

LIVORNO. La forbice si allarga sempre più. La distanza tra chi può permettersi (o vuole permettersi) acquisti/consumi di range elevatissimo, e chi raggiunge con difficoltà la fine del mese ed è costretto a giri di vite anche sui beni alimentari, sta toccando livelli quasi dimenticati in occidente. E’ un dato di fatto tant’è che Confcommercio sabato dalle colonne di Italia Oggi segnala che il -1.1% registrato a gennaio nei consumi è stato il peggior risultato degli ultimi tre anni. Con caduta libera nei prodotti alimentari (-2.5%); nei mezzi di trasporto (-4.4%); nei vestiti (-1.7%) e veri “crolli” anche per pane, pasta e vino. Segnali e dati che vanno incrociati con quelli relativi ai consumi che invece crescono: le griffe su tutti. Anche nel campo dell’arredamento immobiliare (vedi Sole24Ore di sabato), oltre ad accessori dell’abbigliamento di vario genere. Oppure i trionfi nella produzione di megayacht, fiore all’occhiello del Belpaese, anche se in questo caso bisognerebbe vedere chi sono gli acquirenti, con tutta probabilità stranieri.

Ma nell’analisi di ciò che cresce e di ciò che decresce, va segnalato che non conosce crisi, anzi ha il segno “più” sempre e comunque, il comparto dei farmaci e in particolare – facendo riferimenti alle notizie di oggi – i prodotti contro l’insonnia, gli ansiolitici e i calmanti. Un business da 5 miliardi di euro e che raddoppierà, si legge su Affari & Finanza, entro il 2012. 10 milioni in Italia i consumatori, 15% dell’Ue. Questo dato non necessariamente si lega all’allargamento della forbice tra “chi può” e “chi non può” a causa della disparità di salario, ma è indicativo della qualità della nostra vita e serve per capire i campi dove si investe e cosa tiri l’economia.

Così continuiamo a registrare una generale tendenza dell’assottigliamento delle buste paga delle classi medie e medio basse, un conseguente abbassamento di certi consumi/acquisiti (quelli dei ceti bassi) e dell’aumento di altri (quelli dei ceti alti), una costante individuazione della cura di questa situazione solo nell’aumento dei salari. Che a loro volta produrranno aumento dei consumi e (come gran parte delle pubblicità vorrebbero far credere) migliore qualità della vita.

Detto però che è senz’altro cosa buona e giusta aumentare pensioni e buste paga dei lavoratori, che magari potranno permettere di aumentare non tanto la quantità di cose da comprare, ma dei servizi cui poter accedere, il punto però è sempre lo stesso: questo modello perpetrato ormai dal secolo scorso è quello che ci permetterà di rendere l’economia italiana (ma il discorso ovviamente è globale) più sostenibile ambientalmente e socialmente?

Il rapporto Stern prima e l’Ipcc dopo hanno già risposto a questa domanda con un secco no. Dopo i premi e gli applausi nessuno sembra ricordarsi che proseguendo su questa strada seghiamo il ramo sul quale stiamo seduti. Il problema del cosa deve crescere perché l’economia mondiale non consumi tutte le risorse del pianeta è questione certamente difficile e non risolvibile con slogan o ricerca di bacchette magiche o pietre filosofali.

Non porsi nemmeno la questione però è un garve errore, anche perché mentre in generale si assiste a questa recessione della crescita dei consumi quasi generalizzata in Occidente, non si arrestano anzi crescono sempre più i flussi di energia e di materia. E siccome la sostenibilità ambientale la si può tentare di raggiungere solo mettendo un freno a questi flussi, diventa ancora più allarmante assistere a questo otto-novecentesco dibattito proprio quando la variabile tempo imporrebbe tempi rapidissimi per una svolta hic et nunc.

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