[10/03/2008] Aria

Carbonio, nuovo mercato e vecchi protezionismi

LIVORNO. Il programma di sviluppo delle Nazioni unite (Undp) e il gruppo finanziario belga-olandese Fortis hanno annunciato di aver raggiunto accordi per la promozione di uno strumento finanziario che andrà a sostenere progetti legati alla riduzione di gas serra, basati sui meccanismi di scambio delle emissioni di carbonio, uno dei meccanismi flessibili previsti dal protocollo di Kyoto.

E non è il primo di questi accordi, perché sono ormai molte le compagnie finanziarie che hanno investito e stanno investendo in progetti per produrre energia pulita (perché non determina emissioni di anidride carbonica o lo fa in minima parte) in paesi in via di sviluppo, da parte di aziende che stanno in paesi che devono raggiungere gli obiettivi di Kyoto. In questo caso le aziende che non riescono (o non vogliono perché economicamente poco vantaggioso) ridurre a livello domestico le proprie emissioni in base alle quote assegnate, possono utilizzare crediti di carbonio ottenuti attraverso questi progetti o entrare nel mercato degli scambi.

Perché chi produce livelli di anidride carbonica inferiori rispetto alle quote può vendere crediti e chi invece li supera può comprarli, mettendosi così in regola.
Un mercato con regole, piazze di scambio, intermediari e una borsa su cui si formano i prezzi delle emissioni su cui la finanza non ha tardato a intravedere una fonte di business, con il plus che questo è un business che giova all’ambiente. Elemento questo, anche fortemente criticato nella fase di definizione dei meccanismi di Kyoto, da chi riteneva che i meccanismi flessibili potessero rappresentare una mercificazione troppo spinta dei problemi ambientali.

Sta di fatto che il meccanismo degli scambi di carbonio è divenuto un sistema su cui puntano grandi compagnie di finanza internazionali e molti investitori industriali del settore energetico e che ha dato l’avvio a 940 progetti in grado di generare oltre due miliardi di crediti di carbonio. Solo in Europa si stima che il programma di scambi di crediti di carbonio potrà rappresentare nel 2008 un giro di affari di 46 miliardi di euro.

Un mercato che potrebbe addirittura essere in espansione sulla base degli obiettivi che l’Europa intende raggiungere entro il 2020, per cui si prevede un taglio delle emissioni di CO2 del 20 o addirittura del 30%, nel caso si raggiungesse un accordo a livello internazionale.
Nel pacchetto energia presentato il 23 gennaio scorso dalla Commissione, per tradurre in misure normative gli obiettivi tre venti, si prevede ancora un ricorso ai crediti esterni per poter raggiungere le quote di emissione, ma il cap, ovvero il livello massimo di quote ammesse sarà assegnato direttamente dalla commissione, che diminuirà quelle assegnate gratuitamente senza però eliminarle del tutto (anzi per alcuni settori come l’acciaio e il cemento si potrebbe arrivare alla distribuzione gratuita del 100% delle quote).

Cambierà anche il sistema di attribuzione delle quote alle aziende: non più in forma gratuita ma attraverso delle aste, che riguarderanno in maniera progressiva la percentuale delle quote sino ad arrivare al 100% nel 2020 e dove le quote avranno un prezzo stabilito.
La vendita all’asta delle quote dovrebbe generare quindi un mercato non trascurabile e se il target di riduzione verrà fissato al 30%, si stima che gli introiti potranno essere attorno ai 100 miliardi di euro l’anno.
Per questo il mondo della finanza vorrebbe un mercato libero, cioè senza limiti posti da Bruxelles e il mondo imprenditoriale lamenta che potrebbe avere serie difficoltà a rispettare gli obiettivi e di dover essere costretto quindi a delocalizzare le proprie attività se non potrà accedere, senza tetti, all’acquisto di crediti all’esterno.

Una posizione che trova la sponda da parte di paesi come Francia e Spagna che partendo da una buona situazione riguardo agli obiettivi di tagli alle emissioni, vorrebbero dare mano libera alle proprie imprese nel vendere i crediti. Di diversa opinione l’Italia, che essendo più indietro vedrebbe invece costrette le proprie aziende a comprare.

Un atteggiamento quindi di protezionismo (in un senso o nell’altro) rispetto alle proprie aziende, che denota che l’approccio che emerge è sempre quello di percepire, nella necessità di intervenire sulle emissioni climalteranti, un limite all’economia anziché scorgerne una opportunità per cambiare gli schemi classici su cui l’attuale economia si basa.

Una risposta, ad esempio, alle richieste che provengono dal Consiglio di cooperazione economica per garantire competitività alle aziende europee che ha presentato un decalogo a Bruxelles, potrebbe essere quella che gli introiti provenienti dalla vendita all’asta delle quote di emissione verranno reinvestiti in politiche in grado di sviluppare settori economici di salvaguardia del clima e dell’ambiente. Per dare forza a progetti e per sviluppare più e meglio aziende europee in grado di offrire al resto del mondo tecnologie innovative in tal senso.

Progetti su cui la finanza sta già investendo e ha interesse a continuare ad investire.
Ma ancora una volta, si ha come l’impressione, che la finanza abbia una marcia in più rispetto alla politica.

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