[21/03/2008] Comunicati

Cina e Tibet: la solidarietà pelosa di dittature e regimi autoritari

LIVORNO. Al governo cinese deve aver fatto molto piacere l’annuncio che George W. Bush sarà a Pechino all’apertura delle olimpiadi, ma il governo comunista sembra ancora più interessato a costituire sulla repressione in Tibet un blocco asiatico, tenuto insieme dal fastidio per incombenze democratiche un po’ troppo spinte e dalla lotta comune all’indipendentismo di popoli ed etnie.

Più dello scontato nulla-osta Usa, a Pechino sarà piaciuta la nota dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Ocs, il blocco ero-asiatico di cui la Cina fa parte) che afferma: «Siamo contro tutti gli sfruttamenti melevoli degli eventi del Tibet alla luce dei prossimi giochi olimpici di Pechino – scrive il segretario generale dell’Ocs, Bolat Nourgaliev – Confidiamo nella capacità del governo e del popolo cinese di garantire lo svolgimento dei giochi al più alto livello, in particolare per quel che riguarda la sicurezza degli sportivi e degli invitati stranieri. Gli Stati membri dell’Ocs considerano il Tibet come una parte indissociabile della Repubblica popolare della Cina, e stimano che la regolamentazione della situazione nella regione autonoma del Tibet sia un affare interno della Cina». Con tanti saluti ai monaci tibetani ed al diritto all’autodeterminazione.

E proprio la paura dei movimenti autonomisti spinge numerosi Paesi asiatici ad esprimere solidarietà all’oppressore cinese invece che agli oppressi tibetani e le agenzie ufficiali cinesi sono inondate da questa solidarietà pelosa che a volte si copre di ridicolo, perché cancella la storia di interi Paesi per schierarsi col più forte di turno.

Che dire di Inamul-Haq ministro degli esteri del Pakistan - un Paese nato dalla separazione dall’India e che appoggia la guerriglia Kashmira in India e ha sostenuto i talebani in Afghanistan - che se la prende con i separatisti tibetani e di Taiwan e le Ong occidentali che minacciano le olimpiadi e l’integrità territoriale cinese?

O di Zainab Hawa, ministro degli esteri della Sierra Leone - un Paese ormai colonizzato economicamente dai cinesi e che esce da una guerra civile che lo ha diviso in due per anni - che accusa il Dalai Lama di incitare alla violenza in Tibet per sabotare le olimpiadi?

Ma è la nota della Repubblica popolare democratica di Corea - nata da una guerra secessionista con il sud - a toccare le vette del surreale quando dice di «sostenere il governo cinese nei suoi sforzi per assicurare la stabilità sociale e l’ordine nel Tibet e proteggere gli interessi del popolo tibetano».
Anche gli Stati canaglia dunque rispettano i vicini potenti.

Lo stesso vale per Hassan Sabaa il ministro degli interni del Libano - uno stato diviso in zone di influenza politico-religiose e settarie, già occupato da Israele e Siria - che si preoccupa anche lui della stabilità e dell’integrità territoriale della Cina e della politicizzazione delle olimpiadi.

Non manca la solidarietà di “democrazie” autoritarie come la Tunisia e l’Egitto, ma la punta dell’improntitudine la tocca il partito comunista (maoista) del Nepal - che ha insanguinato il Paese himalayano con una feroce guerra ideologica, dividendolo in zone di propria influenza - e che ora proclama il Tibet «parte inalienabile della Cina e condanna fermamente gli atti che mettono in pericolo la libertà e la sovranità del popolo cinese».

Solidarietà alla Cina viene anche da Vu Dung, ministro degli esteri del Vietnam - immemore della sua lunga lotta di liberazione da una potenza straniera e dai sui complici locali - che sostiene «completamente le misure prese dalla Cina per stabilizzare la situazione in Tibet. La questione del Tibet riguarda puramente degli affari interni della Cina». Chissà cosa ne avrebbero pensato di queste parole i vietcong, quando più di trenta anni fa chiedevano la solidarietà dell’internazionalismo proletario per liberarsi dagli occupanti americani?

Non manca all’appello nemmeno la Cambogia, che pure qualche conto in sospeso con Pechino dovrebbe averlo, visto l’appoggio dei comunisti cinesi al regime genocida dei Kmer rossi e che per anni ha diviso in due il Paese con il sostegno alla guerriglia di Pol Pot, ma il ministro degli esteri di Phnom Penh, Long Visalo, ha detto che gli “incidenti” di Lhasa, «sono stati un minuzioso complotto organizzato da un piccolo gruppo di persone. Alcuni reportages deformati dei media occidentali puntavano a perturbare le sessioni in corso dell’Assemblea popolare nazionale (Apn, l’imperturbabile e blindato Parlamento cinese ndr) e della Conferenza consultiva del popolo cinese, così come l’elezione della nuova dirigenza cinese, ed a sabotare gli imminenti giochi olimpici di Pechino».

A chiudere la sequela di pelosa solidarietà non poteva mancare il Bangladesh, un Paese nato dalla guerra di secessione con il Pakistan appoggiata dall’India, che oggi manda a dire al governo di Pechino che «Tutto quel che riguarda il Tibet rappresenta affari interni della Cina. Il Bangladesh, che sostiene un franco successo delle olimpiadi di Pechino, non vuole che i giochi siano politicizzati da certe organizzazioni».

Insomma, il sangue per le strade di Lhasa ha sollevato non l’indignazione ma il fastidio per le richieste occidentali di trasparenza, democrazia e libertà di espressione. Le dittature e i regimi autoritari asiatici, islamici e africani ci mandano a dire di lasciarli lavorare, e la polemica non è più rivolta contro le sempre più accomodanti e comprensive democrazie occidentali di mercato, ma verso le fastidiose organizzazioni non governative e i timidi media che si attardano a non capire che la democrazia e la libertà dei popoli non oliano più le ruote della crescita, se mai lo hanno fatto.

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