[22/04/2008] Aria

Lo scioglimento dei ghiacci e gli idrati di metano

ROMA. Volando in elicottero fino a 1.800 metri di altezza sul delta del fiume Lena, in Siberia, abbiamo misurato una concentrazione di metano insolitamente alta, cinque volte superiore alla media. Temiamo che un rischio considerato fino a ieri potenziale stia diventando attuale. Gli idrati di metano trattenuti sul fondo dell’oceano Artico si stanno, in parte, sciogliendo e il «ghiaccio che brucia» si sta liberando in atmosfera.

La dichiarazione di Natalia Shakhova, biochimica russa in forze all’Istituto di Geografia del Pacifico di Vladivostock, e, soprattutto, i dati presentati alla conferenza dell’Unione Europea di Geoscienze che si è tenuta a Vienna nei giorni scorsi sono piuttosto preoccupanti. Per tre motivi. Perché indicano che un’altra potentissima fonte di gas serra si sta aprendo. Perché sottolineano come di questa fonte sappiamo ancora molto poco. E, soprattutto, perché ci ricordano che, a tutt’oggi, una volta aperto il vaso non abbiamo (non conosciamo) molte possibilità di richiuderlo.

Gli idrati di metano non sono altro che cristalli di ghiaccio che hanno intrappolato, al loro interno, molecole di gas metano. Si formano nelle zone in cui la fermentazione batterica è attiva e il clima lo consente. Di idrati di metano è, pertanto, pieno zeppo il permafrost – il terreno ghiacciato che ricopre quasi un quarto delle terre emerse – e, soprattutto, il fondo sedimentario dei mari polari. Il metano è un gas serra molto efficace. Ogni molecola è capace di trattenere una quantità di energia 21 volte maggiore di una molecola di biossido di carbonio. Il permafrost e gli oceani ne trattengono, negli idrati, quantità tali da poter far aumentare di 20 volte l’attuale concentrazione di metano in atmosfera. Se gli idrati di metano contenuti nel permafrost e negli oceani si sciogliessero del tutto, l’aumento della temperatura media del pianeta potrebbe diventare incontrollabile.

Negli ultimi anni abbiamo registrato dati coerenti che ci dicono che il permafrost in Siberia, in Alaska, in Scandinavia sta iniziando a sciogliersi e a rilasciare metano. Oggi abbiamo dati che sembrano indicare che anche il metano trattenuto dall’Oceano Artico ha iniziato la sua risalita in atmosfera.

Le previsioni più pessimistiche sembrano, dunque, iniziare a realizzarsi. Tuttavia non sappiamo se il processo di scioglimento degli idrati e il rilascio di metano si consumerà in pochi anni, in decenni, in secoli o in millenni. Non sappiamo neppure se l’innesco è reversibile, né se e quando il processo possa interrompersi. In definitiva il rischio è altissimo, ma le conoscenze sono poche.

Dobbiamo saperne di più. Dobbiamo incrementare le ricerche. Siamo, tra l’altro, nel pieno dell’Ipy, l’Anno polare internazionale (marzo 2007-marzo 2009). In aggiunta agli 800 milioni di dollari che, in genere, il mondo spende ogni anno per ricerche sugli ambienti polari, se ne sono aggiunti altri 400: per un totale di 1,2 miliardi di dollari. Un ammontare non banale di risorse. Tuttavia – come ha fatto notare la rivista scientifica Nature nell’editoriale che apre il numero pubblicato la scorsa settimana – pochi di questi soldi vengono investiti in ricerche che riguardano gli ambienti artici e, in particolare, lo studio del rischio, potenzialmente altissimo, associato agli idrati di metano.

Naturalmente non sappiamo neppure come fronteggiare la minaccia. Possiamo solo sperare nel generale impegno a rallentare i cambiamenti climatici o possiamo pensare a soluzioni specifiche (per impedire in qualche modo lo scioglimento degli idrati e/o per catturare almeno in parte il metano liberato)?

Ancora una volta, abbiamo bisogno di saperne di più. E abbiamo bisogno che lo sforzo di ricerca non sia demandato solo a questo o quel paese sensibile, ma sia davvero internazionale. Il rischio riguarda l’intero pianeta ed è necessario che l’intero pianeta concorra a studiarlo.

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