[28/04/2008] Consumo

Pesticidi e monocoltura dietro la crisi del riso

LIVORNO. La crisi del riso in Asia non ha sorpreso Pesticide action network (Pan) che già da anni aveva lanciato un allarme sulla penuria prossima ventura, naturalmente ignorata dai maggiori produttori mondiali di riso: Bangladesh, Cina, Filippine, Giappone, Indonesia, Myanmar, Thailandia e Vietnam. «Durante gli ultimi cinque anni abbiamo detto che stavamo per affrontare una crisi della produzione del riso – ha spiegato all’Ips Clare Westwood, coordinatrice della campagna Salviamo il nostro riso – che la sovranità e la sicurezza alimentare erano state erose. E’ stata solo una questione di tempo perché le avvertenze si trasformassero in realtà».

Secondo il Pan gran parte della crisi dipende dalle colture su scala industriale e dalla monocultura: le varietà di riso che assicurano un elevato rendimento necessitano di un grande impiego di fertilizzanti chimici, ma venivano presentati come la risposta ad una domanda in aumento.
Una scelta che ha finito per emarginare i piccoli agricoltori che utilizzavano specie locali di riso più adattabili all’ambiente.

Secondo Westwood, «Le varietà ad alto rendimento non sono tanto resistenti come quelle utilizzate nella produzione tradizionale organica. Il riso ibrido ha un buon rendimento solo in alcune determinate condizioni. Richiede un uso intenso di fertilizzanti e pesticidi, così come una maggiore quantità d’acqua. Queste sono le sue debolezze congenite». Secondo uno studio della United Nations Economic and Social Commission for Asia and the Pacific (Escap) il 70% dei poveri della regione vive nelle aree rurali ed il riso è il loro elemento di base per sopravvivere, ma proprio queste aree sono state dimenticate dalle politiche di sviluppo nazionali ed internazionali.

Secondo la Banca Mondiale, l’agricoltura rappresentava il 28,7% del Pil della Cina, tra il 1981 e il 1985, mentre l’industria era al 26%; tra il 2001 e il 2006, il Pil agricolo è sceso all’ 8,7% e l’industria è salita al 49,1%. Nello stesso periodo il India l’apporto agricolo al Pil è calato dal 18,4% al 6,2%, in Indonesia dal 18,4 all’11,8%.

Ma la crescita dell’industria non ha fatto calare il numero dei poveri nelle zone rurali: il 60% della forza lavoro in Asia-Pacifico è ancora impegnata in agricoltura e si tratta in gran parte dei più poveri tra i poveri e mentre manca il riso sempre più campi coltivati vengono abbandonati da contadini che vanno a cercare un briciolo di benessere nelle sempre più affollate metropoli asiatiche.

Secondo l’Escap è venuto il momento di fare i conti con i costi sociali e ambientali della “rivoluzione verde” degli anni ’40 – 50 e 60 che ha introdotto nuove tecniche di coltivazione nei Paesi in via di sviluppo e che ha introdotto varietà di riso ad alto rendimento, alterando profondamente la struttura del processo di coltivazione del riso in Asia.

Se tra il 1968 e il 1981 la produzione è cresciuta del 42%, oggi si stanno scontando i costi delle monocolture ed anche gli esperti internazionali di risicoltura sono ormai coscienti del danno ambientale prodotto dal “super-riso” e da fertilizzanti e pesticidi, ma davanti alla fame ed alle rivolte che rischiano di infiammare il mondo il movimento ecologista non può far sentire la propria voce, ha ragione ma probabilmente resterà ancora inascoltato: bisogna prima di tutto sfamare la gente.

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