[02/05/2008] Energia

Cibo contro biocarburanti? Un dibattito complicato

LIVORNO. La crisi alimentare infuria e sul banco degli imputati sono finiti anche i biocarburanti, e Jean Ziegler, incaricato speciale dell’Onu sul diritto all’alimentazione, nei giorni scorsi ha chiesto una moratoria di cinque anni: «In un anno, il prezzo del grano è aumentato del 130%, il prezzo del riso del 74%, il prezzo della soia dell’87%, e quello del mais del 53%. L’aumento generale del 48% dei prezzi alimentari, così come valuta la Fao, sta colpendo i Paesi più poveri. Circa 2,2 miliardi di persone, un terzo dell’umanità, vivono in estrema povertà o al di sotto del minimo vitale e non possono pagare questi prezzi a lungo termine- La trasformazione massiccia di alimenti in biocarburanti è la principale causa di questa crisi, insieme alla speculazione che è responsabile del 30% dell’aumento dei prezzi. Su 2 miliardi di tonnellate di cereali prodotte, 500 milioni sono controllati totalmente da Cargill» (una multinazionale Usa n.d.r). Ziegler ha chiamato in causa anche il Fondo monetario internazionale che ha imposto di piantare prodotti destinati all’esportazione favorendo così il declino dell’agricoltura di sussistenza.

Ma il dibattito sulla crisi alimentare potrebbe essere più complesso di quel che pensa Ziegler oppure chi ha visto nei biocarburanti la risposta al cambiamento climatico e per ridurre i gas serra. Il miracolo e la moratoria potrebbero essere le due facce di una medaglia che molto probabilmente ha anche altre dimensioni e sfaccettature. Secondo il vicedirettore dell’ International Union for Conservation of Nature (Iucn), Bill Jackson, «l’attuale dibattito sui mezzi di informazione è semplicistico. In realtà ci sono molti fattori che influenzano i prezzi e la sicurezza alimentare. Questo dibattito dovrebbe essere fatto su come il mondo produce il cibo e come esso sia accessibile ai diversi gruppi della società. Politiche agricole e tecnologie insostenibili, regole commerciali inique, sussidi agricoli che distorcono il mercato e la sistematica emarginazione dei piccolo produttori sono al centro dell’attuale crisi alimentare. In più ci sono i cronici sottoinvestimenti nell’agricoltura nei Paesi in via di sviluppo e la negazione della premessa basilare che gli ecosistemi devono essere in buono stato per poter garantire il buon cibo».

Per Gonzalo Oviedo, responsabile della Conservation and Poverty Reduction Initiative dell’Icn, «Governi ed agenzie di aiuto devono riconoscere che la salute degli ecosistemi che forniscono acqua, suolo fertile, controllo dei parassiti e impollinazione, sono di vitale importanza per l’agricoltura. Il mantenimento di questi servizi ambientali devono essere incorporati nei piani nazionali e regionali di riduzione della povertà e di sviluppo».

Ma la sicurezza alimentare si basa anche sulla salute umana: sul lungo periodo l’epidemia di Aids nell’Africa australe devastante per la produzione alimentare: alcuni Paesi rischiano di perdere in 20 anni il 26% della loro forza lavoro agricola. «Puntare il dito e dare la colpa per l’attuale crisi alimentare esclusivamente ai biocarburanti non è la risposta – dice l’Iucn – Le cause sono di gran lunga più complesse. In modo analogo, non è chiaro se i biocarburanti siano positivi o negativi per l’ambiente. Non sono la soluzione la soluzione perfetta o unica per il cambiamento climatico, ma dovrebbero poter essere ammortizzabili».

Secondo Jackson «Non possiamo permetterci la reale opportunità di utilizzare i biocarburanti per far fronte ai cambiamenti climatici a causa di un’analisi debole. L’impatto della produzione dei biocarburanti dipende da come venga effettuata e in quale parte del mondo essa si svolga. Per esempio, la rapida espansione di piantagioni industriali di palma da olio in Indonesia hanno costretto i piccoli coltivatori a convertire le loro terre e fasce di ricca foresta pluviale in grandi monocolture. Ma in altri casi i biocarburanti hanno effettivamente migliorato la vita delle popolazioni locali e contribuito alla conservazione degli habitat naturali
Nella regione del Western Ghats dell’India, per esempio, la Applied Environmental Research Foundation ha aiutato gli abitanti a produrre olio per biocarburanti da una specie locale di arbusto (Caesalpinia crista). Non solo qui la produzione di biocarburante aiuta la popolazione locale a guadagnare soldi, ma anche a proteggere l’ambiente naturale».

Per Andrea Athanas, coordinatoe della Energy Ecosystems and Livelihoods Initiative dell’Iucn, «Il punto è che non tutti I biocarburanti sono uguali. Abbiamo bisogno di una discussione più informata sui rischi rappresentati dai biocarburanti, ma anche sulle possibilità che presentano. L’Iucn si sta sforzando di farlo».
L’alternativa sarebbero i biocarburanti di seconda generazione, prodotti a partire dai rifiuti agricoli e dalle alghe e quindi senza entrare in concorrenza con le colture alimentari.

Insomma, per l’Iucn i biocarburanti sono una parte della soluzione del climate change, ma non dovrebbero essere al centro della discussione sulla crisi alimentare. «E’ il momento di mettere sotto i riflettori i sistemi di produzione e tutti I problemi connessi con la produzione alimentare. Iucn sta lavorando per trovare soluzioni di lungo termine e sostenibili basate sui migliori dati scientifici disponibili. Si tratta di spingere i governi a creare politiche che riconoscano l’importanza della salute e della diversità degli ecosistemi per la sicurezza gli alimenti ed energetica. Iucn ritiene che le soluzioni possono essere trovate se si considerano attentamente tutte le opzioni disponibili nel contesto locale e nazionale».

Da segnalare, a proposito del dibattito, anche quando sostiene Corrado Clini su Nova di ieri. «Non tutti i biocarburanti sono uguali e il potenziale di sviluppo delle produzioni ‘sostenibili’ è enorme». Clini fa alcuni esempi: “Il bioetanolo da canna da zucchero (la fonte è il dossier della Global Bioenergy Partnership, ndr) ha un’efficienza di riduzione delle emissioni di carbonio attorno al 90%, è competitivo in modo marginale con le altre produzioni agricole e non incide sui prezzi dei prodotti alimentari, è conveniente conun prezzo del barile di petrolio a 30 dollari”.

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