[12/05/2008] Monitor di Enrico Falqui

Don’t follow leaders (Non seguite i leader)

Quarant’anni fa, ci svegliammo la mattina del 10 maggio, ascoltando la radio che descriveva gli scontri notturni tra studenti e poliziotti alla prigione della Santè, a Parigi. La polizia aveva bloccato i ponti sulla Senna e una marea di studenti aveva innalzato, nelle strade strette e lungo gli ampi Boulevards del Quartiere latino, barricate costruite con ogni genere di attrezzi, persino mobili e letti trascinati dagli appartamenti. Parigi era lontana, ma i cuori di noi ventenni, studenti universitari nell’ancora esasperante “provincia” italiana, battevano con passione e con una straordinaria forza per quei giovani “fratelli” in lotta per le strade di Parigi.
Molti di noi risposero all’appello degli studenti della Sorbona e di Nanterre, correndo nella notte con treni e auto stracolme verso la Ville Lumière.

“Brother” (Fratello), era il soprannome che ogni ventenne, ogni giovane che si identificava con quella “ grande speranza” di cambiamento, portava in giro per il mondo insieme al suo sacco a pelo ; quella parola, anzi, finì per diventare la carta di riconoscimento di chi, all’inizio di quello straordinario movimento mondiale che fu il Sessantotto, sentiva di appartenere alla rivoluzione promessa da Jerry Rubin durante la fondazione dello Youth International Party ( da cui derivò il termine con il quale quel movimento ai suoi esordi si fece conoscere a livello mondiale, “yppies”).
Anche in Italia, quel movimento al suo esordio, trovò identità in simboli che provenivano dai fermenti giovanili americani in California o a Chicago, poi divenuti ambigui e dimenticati, quali, Potere studentesco, Fantasia al potere, Contestazione giovanile globale.
La politica e la cultura italiana offrivano all’epoca un triste e provinciale spettacolo; lo spartiacque tra le giovani generazioni di allora con il mondo politico e culturale e con i modelli familistici patriarcali ancora esistenti, venne amplificato e reso irreversibile dalla “grande speranza “ di cambiamento rappresentata da un movimento mondiale contro la guerra in Vietnam che aveva trovato, durante la campagna elettorale per le presidenziali statunitensi, i suoi incontrastati leaders in Martin Luther King e Robert Kennedy.

Il Sessantotto è stato un anno in cui è successo tutto; uno di quegli anni in cui la Storia si diverte ad accelerare, a concentrare eventi che bastano e avanzano per un ventennio. Anche per questo, è difficile e complesso dare un giudizio su cosa fu quel periodo, come in queste settimane si tende a fare, attraverso editoriali, monografie, programmi televisivi, reportages, interviste che accompagnano i “quintali” di volumi che le Case editrici mettono sul mercato in questo mese per “celebrare” l’evento.
Insomma, è difficile “valutare” l’enorme quantità di significati non solo politici,ma anche di emozioni collettive, di radicali mutamenti di comportamenti sociali, di stili di vita, di modelli culturali che il Sessantotto apportò , prima ancora di poter dare un “ giudizio politico” o addirittura “una sentenza morale” su di esso, come molti interessati Neo-Con oggi sostengono sia necessaria, in modo da creare una teoria giustificatrice della naturale evoluzione del movimento del 68 nel terrorismo che negli anni 70 e 80, insanguinò l’Italia.

Quelli furono gli anni della rivoluzione sessuale e della fantasia al potere, delle lotte studentesche che entrarono in sintonia con quelle degli operai in tutta Europa, della rivolta contro l’Autorità, sia che essa fosse rappresentata dalla genitorialità o dallo Stato, visto come usurpatore della propria libertà ed indipendenza individuale.
Lo scrittore tedesco, Peter Schneider ha giustamente osservato in un suo recente saggio che “ furono le teorie del nuovo fascismo” ad indurre il movimento alla militarizzazione del conflitto , disperdendo così l’energia emancipatrice della sua critica anti-istituzionale.
Proprio nel marzo del ’68, sul quotidiano francese “Le Monde” era apparso un articolo, intitolato “L’agitazione studentesca nel mondo”, nel quale il sociologo francese Alain Touraine si interrogava così : “…i movimenti di Berlino e di Nanterre, di Praga e di Varsavia, non sono forse i segni premonitori di una critica e di una contestazione intellettuale e pratica della società dominata dalle grandi organizzazioni e dall’apparato statale, una spia di nuove forme di dominio e di nuovi conflitti sociali?”.

Tale interrogativo rivelava l’eterogeneità delle ispirazioni, la complessità del mosaico di idee che aveva generato un movimento di “ contestazione giovanile globale”le cui radici apparivano lontane nel tempo ed attraversavano tutti i gangli vitali di una società alle soglie di un “ trauma”altrettanto globale. Stava per avere inizio l’epoca della globalizzazione dell’economia e della politica, la prima storica percezione da parte dell’Uomo moderno che lo sviluppo illimitato stava portando alla crisi ecologica del Pianeta.
Il paradosso del ’68 è stato quello di rappresentare, al tempo stesso, il “nuovo inizio” ma anche la “ fine esaustiva” di due processi storici che marciavano in senso opposto l’uno all’altro.
Del resto, ciò apparve chiaro quando le idee del filosofo tedesco Herbert Marcuse, che insegnava in una delle università americane da cui ebbe inizio il movimento di rivolta contro la guerra in Vietnam (Berkeley, California), giunsero semi sconosciute in Europa, incontrandosi con le idee marxiste e situazioniste che affascinavano i giovani studenti europei.

Nella sua analisi delle contraddizioni della società, Marcuse affermava che il capitalismo aveva raggiunto uno stadio di sviluppo che lo spingeva incessantemente a creare nuovi bisogni. Essi diventavano dei veri e propri condizionamenti psicologici che tendevano a imporre “nuove forme di alienazione”, modellando in modo conformistico la mentalità dei giovani, creando modelli culturali omogenei (oggi diremmo “un pensiero unico”) al servizio dell’apparato produttivo e della produzione di merci.
Per questi motivi, Marcuse rivolgeva la sua critica più aspra verso la società dei consumi e verso i meccanismi di manipolazione messi in atto dalla pubblicità e dai mass-media, in modo che l’individuo fosse spinto a riconsiderare in tutte le dimensioni le proprie scelte di vita.

E’ proprio questa complessa dimensione del ‘68 che è scomparsa oggi da tutte le celebrazioni in corso ed anche da tutte le ricostruzioni ufficiali di quel decisivo momento storico, privilegiando l’analisi delle cause e degli sbocchi politici successivi (anni 70-80), dimenticando completamente la straordinaria semina di idee nuove che erano scaturite da tutti i settori “innovativi” della società globale in fibrillazione per le speranze genuine di uno straordinario evento di cambiamento antropologico e filosofico che avrebbe investito tutti i popoli della Terra.

Molti artisti dell’epoca ricordano ancora oggi che il Sessantotto era leggibile tra le pieghe delle avanguardie artistiche d’inizio secolo; il futurismo, il surrealismo, il cubismo, il dadaismo altro non sono che la ricerca di un nuovo linguaggio figurativo capace di esprimere la loro creatività, di un nuovo “ paradigma artistico” che il Sessantotto celebrò come sintesi sociale di una società civile che si contrappose in tutte le sue forme a un Potere incapace di prospettare un futuro alle nuove generazioni ma anche di garantire a sé stesso la sua sopravvivenza. E come sempre accade nella storia quando il Potere tende ad essere rovesciato, esso manifesta nelle sue forme più efferate la volontà di non cedere.

Andy Warhol, simbolo della nuova pop art ed eccentrico teorico del nuovo paradigma sull’arte moderna, fu ferito gravemente, in un attentato ancora oggi oscuro, un giorno prima che altri colpi di pistola abbattessero Bob Kennedy (5 giugno ’68) durante gli ultimi giorni di una campagna elettorale che spense in America e nel mondo la grande speranza per un cambiamento “globale”che dagli Stati Uniti avrebbe sicuramente coinvolto tutto il mondo, anticipando di cinque anni la fine della guerra in Vietnam.

“Gridai : chi uccise i Kennedy? Quando dopo tutto fummo voi ed io”.
In questa strofa tratta dalla celeberrima “Sympathy for the devil”, che i Rolling Stones incisero il giorno dopo l’uccisione di Bob Kennedy, vi è tutta la disperazione di una generazione di pacifisti e di radicali libertari (la migliore gioventù) che aveva da poco scoperto la necessità di superare il cosiddetto “equilibrio del terrore”nucleare tra Est e Ovest, anticipando il corso della Storia di circa 20anni.
Quando nel 1989, col crollo del muro di Berlino, diventarono maturi i tempi per la dissoluzione della Guerra Fredda, ci si accorse che il sogno di Luther King, di Gandhi, di Bob Kennedy, di Capitini e La Pira era stato enormemente più concreto di tutte le ideologie ottocentesche che avevano legittimato la spartizione del mondo in due sfere di influenza contrapposte, tra Paesi comunisti e Paesi capitalisti.
Quei 20 anni perduti in una contrapposizione militare e politica tra Est-Ovest, tra sfere di influenza contrapposte che bloccarono l’evoluzione democratica di milioni di persone (in Europa e nei paesi in via di sviluppo), distolsero l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale dalle premonizioni di Marcuse sulla degenerazione della società dei consumi e sull’evoluzione rapace della globalizzazione economica ormai libera di dilagare senza alcun vincolo in tutti i mercati del mondo.

“Don’t follow leaders, Watch the parkin’ meters” cantava Bob Dylan nei giorni di quel maggio indimenticabile davanti a una folla oceanica raccolta a Chicago contro la guerra in Vietnam da Jack Rubin. Quella voce roca e inconfondibile, che ha accompagnato con le sue canzoni tutti gli anni della maturità della nostra generazione, ci avvertiva di non farci offuscare la vista da ciò che molti leaders politici hanno interesse a farci credere e a ricercare la concretezza delle utopie valide e attendibili (come i parchimetri lo sono per la sosta nelle strade) per trasformare nei momenti decisivi della Storia i paradigmi fondanti della società in cui viviamo, per avere il coraggio di osare laddove la maggior parte dei benpensanti e dei conservatori si ritrae, per costruire con le nostre idee e le nostre mani il futuro che, allora, avevamo davanti a noi.

Torna all'archivio