[12/05/2008] Recensioni

La recensione. Fiumi. Lungo le grandi strade d´acqua del pianeta di Ettore Mo

I fiumi sono stati protagonisti di tutte le fasi della civilizzazione umana (luogo di lavoro e d’incontro, fonti di irrigazione, via di comunicazione, fonti di energia) e memoria storica di grandi battaglie rappresentando confini fisici che hanno delimitato territori di conquista. Oggi i fiumi e le loro acque sempre meno abbondanti, sono l’oggetto del contendere e la causa di conflitti talvolta palesi combattuti con le armi e più spesso con il ricatto economico sociale. Di guerre dell’acqua e di fiumi “violati” da un’antropizzazione crescente, lungo un itinerario che si snoda in vari continenti, tratta il volume di Ettore Mo, giornalista, inviato speciale del “Corriere della Sera”.

Anche i grandi fiumi, come i piccoli, risentono dei cambiamenti climatici globali dovuti all’antropizzazione e all’effetto serra, che causano una variazione dei regimi delle piogge con trend (ormai consolidato) di diminuzione di portate e improvviso scatenarsi di eventi, che in poche ore rilasciano volumi d’acqua non contenibili e nessun tipo di alveo: la conseguenza sono alluvioni e morti.

Questo è lo scenario comune che va ad aggiungersi e ad acuire le patologie croniche che interessano da tempo le vie d’acqua. Non è sufficiente essere riconosciuti come fiumi sacri, ed il Gange è il fiume più sacro di tutti i fiumi indiani, per poter salvarsi dall’inquinamento. I tecnici lo definiscono una «gigantesca fogna, un fiume di liquami dove industrie e privati riversano ogni specie di immondizia. E i bambini ci fanno il bagno. In mezzo a una pozzanghera di escrementi».

Il bacino del Gange è uno dei più grandi al mondo, 1.677.000 chilometri quadrati, ospita circa 700 città, cinquecento milioni di persone (8% della popolazione mondiale) e riceve acque di scarto per circa un miliardo e mezzo di litri l’anno. L’autore ci informa che i piani di risanamento già messi in essere negli anni ‘80 sono falliti e l’India, in un rapporto delle Nazioni Unite, figura al terz’ultimo posto tra 122 paesi presi in esame per la qualità dell’acqua. Eppure l’India è uno dei “campioni” dello sviluppo e della crescita del pil (a testimonianza di quanto sia “grezzo” questo indicatore).

L’impatto antropico, gli scarichi non depurati civili ed industriali, problematica riscontrata dall’autore nel suo percorrere i grandi corsi d’acqua, non appartengono solo a zone lontane del pianeta. Viene sottolineato che nella Mitteleuropa, nel gennaio 2000, il Tisa affluente del bel Danubio blu, scaricò un’ondata di cianuro proveniente da una miniera d’oro rumena, che provocò un disastro ecologico di dimensioni immense. Secondo i biologi ungheresi Il 50% per cento della vita vegetale e animale del fiume è andata distrutta. Ettore Mo non tralasciando gli aspetti storici, culturali, economici che hanno interessato nel tempo la vita dei grandi fiumi (dal Gange al Giordano, dal Tigri-Eufrate al Mississipi, dal Danubio al Piave, dallo Yangtze al Mekong…), sottolinea poi l’altra questione che interessa i corsi d’acqua e in particolar modo i grandi fiumi: l’imprigionamento delle acque nelle megadighe principalmente per produrre energia o per fini irrigui. La Cina che arriva tardi alla soluzione dell’immagazzinamento delle acque (si pensi che gli egiziani nel 2900 a.C. avevano già costruito una diga sul Nilo a Menfi), ora cercano di colmare il tempo perduto costruendo una delle dighe più grandi al mondo, quella delle Tre Gole (capacità d’invaso di 39 miliardi e 300 milioni di metri cubi).

«Le ragioni di questo ritardo andrebbero attribuite soprattutto al conflitto che nella notte dei tempi vedeva schierati, su due fronti opposti, taoisti e confuciani: inclini, i primi, a lasciar liberi i fiumi di percorrere il proprio iter naturale; favorevoli invece, i secondi, all’intervento dell’uomo per deviarli, bloccarli e ottenerne infine il massimo sfruttamento…».

Oggi diremmo che il conflitto è tra ecologisti, che difendono fiumi e comunità locali e le multinazionali che, utilizzando magari finanziamenti della Banca Mondiale, vedono solo l’orizzonte del profitto; nell’impresa sono accompagnate da governi accondiscendenti che avendo l’obiettivo della crescita e dello sviluppo utilizzano risorse naturali spesso “tagliando l’albero in cui sono seduti”.

Ma lo Yangtze, ci ricorda l’autore, con i suoi 6325 km di percorso è un fiume furioso, scatenato, le cui inondazioni nel luglio del 1998 (ultima di molte alluvioni) fecero 3000 morti. «Il principale obiettivo della diga delle Tre Gole era di prevenire le inondazioni… non potevamo subire catastrofi delle dimensioni dello tsunami, o di Katrina a New Orleans… valeva la pena di spostare un milione e duecentomila persone per garantire la sicurezza dei 15 milioni che abitavano in pianura…».

Queste le parole di uno dei progettisti responsabili delle “Tre gole”. Sappiamo che le versioni ufficiali governative cinesi vanno prese con le molle ma pare che i Verdi e i movimenti di protesta siano leggermente più ascoltati rispetto al passato, specialmente per i problemi di inquinamento che non mancano anche per lo Yangtze.

Ma le conseguenze della costruzione di grandi dighe sono reali e comuni nei bacini di tutto il mondo, in sintesi: territori sommersi, popolazioni sradicate, alterazioni dei sistemi ecologici. Questo succede in India nella valle del Narmada (come ci è stato raccontato da Vandana Shiva e Arundhati Roy), sul Tigri e Eufrate, con il famoso progetto Gap (Grande progetto anatolico) che ha provocato e tutt’ora sta provocando tensioni tra Turchia, Siria ed Iraq. Note sono le minacce portate ad Hasankeyf (città del XIII secolo) dalla costruzione delle megadiga di Ilisu. L’elenco delle battaglie contro le grandi dighe è infinito: si passa per il Mekong in Indocina, fino al Nilo in Africa in cui la regolazione delle acque ha messo a dura prova i rapporti tra Egitto ed Etiopia. Stesso tema e altre guerre dell’acqua si riscontrano spostandoci in Sud America, in Paraguay con la barriera di Yaciretà (la più grande diga del continente americano) o in Brasile con la diga di Belo Monte in Brasile nel bacino del Rio delle Amazzoni, voluta anche dal presidente Lula per il suo programma “luce per tutti”: ancora a confliggere sono le esigenze dello sviluppo economico-industriale e i semplici diritti dell’uomo e degli altri essere viventi.

L’autore che nel volume non tralascia la tragedia del Vajont di cui riporta tra l’altro i “tormenti dei sopravvissuti”, nel suo viaggio intorno ai fiumi del mondo descrive corsi d’acqua ridotti a rigagnoli, come il Giordano ed il Piave, osserva deviazioni di fiumi che sono causa di inaridimento di territori, ma che talvolta sembrano l’unica strada per rendere fertili aree che sono ormai al collasso. Ciò si rileva, ad esempio, nel progetto “da Sud a Nord” sullo Yangtze che verrà deviato verso l’agonizzante Fiume Giallo. Interventi dell’uomo, quindi, in qualche caso utili come quello proposto dall’illuminato re Hussein di Giordania per salvare il mar Morto (non più alimentato da un Giordano esangue) con un iniezione idrica dal Mar Rosso (il progetto è in corso di realizzazione).

Ettore Mo, nella sua immersione nei problemi e nelle guerre dell’acqua tocca anche le acque lentiche di due grandi laghi la cui esistenza è minacciata: il lago d’Aral e il Lago Bajkal. Per il primo non ci sono grandi speranze: ormai è quasi defunto con acque che «si sono trasformate in un immane deserto di sabbia e sale invase dalla sabbia». I responsabili in questo caso sono deviazioni di fiumi come il Dsyr Darya e l’Amu Darya volute dall’allora Unione Sovietica per intensificare al massimo la produzione di cotone in Kazakistan e in Uzbekistan. Un dato: dal 1960 al 1990 la superficie di terra irrigata è raddoppiata per arrivare a sette milioni e mezzo di ettari. Un enorme distesa di cotone nell’Asia centrale. E il lago d’Aral sta sparendo.

Minacce sono presenti anche per il lago siberiano di Bajkal (il lago frigorifero) dove «fino a 1637 metri di profondità un inestimabile patrimonio ittico, con rare specie introvabili altrove, contiene il 20 per cento dell’acqua dolce della terra». Il pericolo proviene dal mega oleodotto che dovrebbe collegare Siberia, Asia, Cina e Giappone (4200 chilometri di tubi per un trasporto di 80 milioni di greggio all’anno). I tubi, secondo il progetto originale, dovrebbero passare in zona sismica, sottoterra, in un acquitrino ad un chilometro dal Lago Bajkal: l’incidente è più che possibile sostengono i numerosissimi difensori del Lago (patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco) ed il disastro avrebbe connotati apocalittici. In questo caso però ci sono buone notizie, piuttosto recenti (febbraio scorso): la Commissione federale russa per l’ambiente e l’agenzia federale dei controlli ambientali e nucleari, RosTechNadzor, hanno bocciato il progetto della Transneft (ente russo per il trasporto energetico), a seguito della valutazione di impatto ambientale. Siamo alla terza bocciatura negli ultimi 5 anni ma la Transneft insiste.

Alternando storia ed attualità, tratteggiando i temi economici ed ambientali, ancora una volta emergono le contraddizioni tra sviluppo e conservazione (specialmente quando giocano in campi distinti e reciprocamente impermeabili). Questo è il tema principale che a nostro avviso emerge nel volume di Ettore Mo e che vogliamo sottolineare. Però il libro è anche un racconto leggibile di getto, come si intuisce dalle stesse parole dell’autore «non è facile raccontare un fiume: ma se ti dai da fare e alla fine in qualche modo ci riesci, è come raccontare la vita di una città, di un Paese».

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