[19/05/2008] Monitor di Enrico Falqui

Il dilemma del Leviatano

La sostenibilità dello sviluppo non è un problema di oggi ma ha caratterizzato tutta la storia dell’umanità. Se vogliamo spiegare, con parole semplici e comprensibili per l’opinione pubblica, perché, oggi, la sostenibilità sia divenuta un problema globale, basta rispondere alla seguente domanda: «come estrarre una sufficiente quantità di energia e di risorse naturali da un dato ambiente senza esaurirlo?».
Gli esseri umani, a differenza che in passato, si trovano oggi a dover gestire delle risorse che hanno dimensione globale e che sono condivise con tutti gli esseri viventi del pianeta.
Ciò pone dei dilemmi nuovi, poiché non esiste al medesimo livello, un’autorità cui fare appello e, contemporaneamente, non è pensabile alcun reale processo di suddivisione e privatizzazione per esse.

Tutti noi oggi siamo consapevoli che il prezzo del petrolio è destinato a crescere, finché, come aveva previsto nel 1956 un geologo americano, ricercatore della Shell, Marion Hubbert, quando esso avrà raggiunto il suo “picco produttivo”, la quantità di energia necessaria per estrarlo diventerà eccessiva e, quindi, ne verrà estratto sempre meno.
Oggi sappiamo anche che per il gas naturale l’andamento è analogo, basta semplicemente spostare in avanti di circa un ventennio il picco produttivo che, per il petrolio (secondo stime dell’Us Geological survey, 2007 ) è già stato raggiunto con alcuni anni di anticipo.
Superato il cosiddetto “picco di Hubbert”, i prezzi del petrolio continueranno a crescere finché non verrà messa in esercizio una strategia di approvvigionamento energetico fondata su fonti sostitutive o su un mix di fonti energetiche rinnovabili e non rinnovabili.

Nel 2006, a Città del Messico, 130 Paesi si sono riuniti nel World water forum, per discutere del problema, che è stato definito da alcuni economisti, “dell’oro blù”; in realtà il vero problema che preoccupa l’umanità è la sete che riguarda circa 2 miliardi di persone che non hanno accesso regolare e sufficiente all’acqua potabile (almeno 20 litri al giorno), così come 3 miliardi di persone non hanno servizi igienici in casa e 1,5 miliardi di persone muoiono ogni anno nel mondo per queste carenze complessive.
Eppure di acqua potabile disponibile al mondo ce n’è in quantità sufficiente per tutti, ma è mal distribuita; nei Paesi meno sviluppati ne viene consumata tantissima in agricoltura, poiché le nuove colture (introdotte dai fondi “di aiuto allo sviluppo” del Wto) consumano tre volte più acqua delle varietà indigene di frumento e riso.

Nonostante l’abbondanza d’acqua, se guardiamo le statistiche globali della risorsa idrica, essa scarseggia ovunque, anche nei Paesi più ricchi, dove si è dispersa in sprechi, abusi e inquinamenti delle sorgenti e dei corpi idrici.
Così è accaduto che siamo stati costretti costruire un numero sempre più elevato di dighe, bacini, sistemi di pompaggio delle acque che hanno permesso di triplicare l’approvvigionamento idrico rispetto al 1950, rifornendo città, industrie, centrali termoelettriche dalle quali dipende lo sviluppo delle nostre comunità.

Pochi sanno che oggi circa il 40% degli alimenti mondiali proviene da territori irrigati che costituiscono soltanto il 18% di tutti i terreni agricoli. Così come non ha destato clamore nell’opinione pubblica mondiale il risultato di una ricerca apparsa recentemente su “Science”, nella quale si afferma che gli impianti di depurazione in Europa, sono sufficienti a smaltire solo un ventesimo delle acque reflue industriali prodotte. Ciò significa che il rimanente 80% verrà incorporato attraverso i cicli naturali delle acque e del suolo dagli ecosistemi naturali nei quali viviamo o dai quali ricaviamo cibo per l’alimentazione.

Cosa accadrà quando l’incremento irreversibile del prezzo del barile di petrolio o (nel prossimo futuro) quello del metro cubo di gas naturale metterà in evidenza, sia la necessità di intraprendere una strategia energetica fondata su energie e risorse rinnovabili, sia che la nostra produzione di beni alimentari e di consumo è accessibile a circa un terzo dell’umanità per il basso costo dell’energia incorporata dalle merci che ci permette il lusso di separare i luoghi di produzione delle merci dai luoghi di accaparramento delle risorse comuni che servono anche ai rimanenti due terzi della popolazione mondiale?

Si dimostra, a quarant’anni di distanza dalla prima edizione del celebre libro “The tragedy of the Commons”, che Garrett Hardin aveva intuito il dilemma dello sviluppo contemporaneo, ricostruendo, fin dai tempi della Rivoluzione Industriale dell’800, il progressivo passaggio dei beni pubblici dell’epoca a risorse comuni della società industriale matura.
In altre parole il petrolio e l’acqua, trasformandosi da beni pubblici in “risorse comuni”, ovvero risorse sfruttate in comune da più utilizzatori dove i processi di esclusione dall’uso dei potenziali beneficiari sono stati favoriti dai cartelli “monopolistici privati” e dalle alleanze geopolitiche e militari, durante tutto il Novecento, sono divenute “beni” da cui dipendono cibo e merci, i cui consumi causeranno rivalità sempre più accese tra i popoli.

Il modello, ideato da Garrett Hardin nel 1968, partiva dall’illustrazione di un pascolo, al quale era consentito libero accesso per tutti, che viene utilizzato da più pastori per portare i loro animali.
Il problema, diceva Hardin, consiste nel fatto che mentre i benefici dell’aggiunta di un nuovo capo del gregge vengono interamente percepiti dal proprietario, i costi rappresentati dal consumo della risorsa, vengono distribuiti tra tutti gli attori che la condividono.
Ciascuno di essi ha interesse ad incrementare il gregge ben al di sopra di un livello collettivamente sostenibile (efficiente ed equo), con conseguenze anche gravi in termini danneggiamento o di distruzione della risorsa. In termini economici, l’azione di ciascuno dei pastori presenta delle esternalità negative sugli altri attori che interagiscono nella medesima situazione.
La posizione di Hardin è che gli utilizzatori di una risorsa comune sono intrappolati in un dilemma tra interesse individuale e utilità collettiva, da cui è possibile uscire solo attraverso l’intervento di un’Autorità esterna che per il biologo americano non può essere che lo Stato.

Agli inizi degli anni 90, tuttavia, Elinor Ostrom (in “Governing the commons”) ha criticato sia la gestione statalista e centralizzata delle risorse comuni da parte dello Stato Leviatano, quanto la privatizzazione delle stesse. La politologa statunitense, che nel 2008 si è affermata a livello mondiale come migliore analista geopolitica, afferma che non esistono dei modelli applicabili universalmente nella gestione delle risorse comuni. Al contrario, prendendo in considerazione molti casi storici e contemporanei, le singole comunità appaiono essere riusciti a evitare i conflitti improduttivi e a raggiungere accordi su una utilizzazione sostenibile nel tempo delle risorse comuni tramite l’elaborazione di istituzioni deputate alla loro gestione.

Agli inizi del nuovo secolo, si delinea una questione cruciale per la sopravvivenza dell’intero Pianeta:la sostenibilità dello sviluppo umano è garantita solo dalla equa ed ecologica gestione delle risorse comuni, sia quelle naturali che quelle artificiali. Se non si vogliono intraprendere drastiche politiche neo-malthusiane di riduzione della popolazione globale, assicurare cibo per tutti gli abitanti del pianeta, anche negli anni successivi al superamento definitivo del picco di Hubbert per petrolio e gas (2025), comporterà due alternative.

O una politica di “federalismo mondiale” per la gestione delle risorse comuni con accordi sovranazionali gestiti da Autorità indipendenti, in modo da ricollocare la produzione di cibo e la sua distribuzione al rapporto diretto produttori-consumatori.
Oppure uno Stato Leviatano capace di utilizzare strumenti coercitivi in modo tale da costringere gli attori dello sviluppo a comportamenti responsabili in grado di limitare il consumo della risorsa a un livello sostenibile. Una prospettiva complessa, nel primo caso, preoccupante, nel secondo, poiché si tratta, invece, ancora una volta, come ci ricorda Vandana Shiva, di costruire istituzioni che creino incentivi al comportamento individuale e collettivo tali da risultare in equilibrio con il sistema Terra.

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