[21/05/2008] Energia

Abruzzo: basta un poco di petrolio per rovinare la "regione verde"

LIVORNO. Il prezzo del petrolio cresce a ritmi quasi costanti (+ 30 euro dall’inizio dell’anno), le riserve sono in calo (nonostante le dichiarazioni rassicuranti da parte dei petrolieri) e i paesi dell’Opec non hanno nessuna intenzione di produrre a ritmi più serrati, come hanno ribadito anche qualche giorno fa al presidente Bush, che li incalzava a tal proposito. Il petrolio quindi si va a cercare anche nelle sabbie bituminose, in questa direzione va l’accordo siglato da Eni con il Congo, o sotto le colline e le montagne dell’Appennino centrale. Sono sempre di più le compagnie petrolifere, nazionali e non, che hanno deciso infatti di intraprendere l’iter autorizzativo per le esplorazioni e l’estrazione del greggio in Italia. Con la logica di recuperare tutto il possibile, anche in condizioni estreme o rischiando per questo di mandare a gambe all’aria un economia già avviata e fiorente.

E’ quello che sta succedendo anche in Abruzzo, dopo la Basilicata o che potrebbe accadere in altre regioni d’Italia, compresa la Toscana.
Le istanze per i permessi di ricerca presentate al ministero dello Sviluppo sono aumentate dal 1996 ad oggi, passando da 6 a 48, mentre quelle per le concessioni di coltivazioni sono passate
dall’unica del 1988 alle 9 del 2006. E poi ci sono poi i permessi di ricerca e le concessioni di coltivazione e stoccaggio già accordati, che a fine 2007 erano 297, sparse su un territorio pari al 13,2% del territorio nazionale. Fra queste Basilicata, Abruzzo ed Emilia Romagna sono le maggiormente interessate. Ma mentre nel territorio romagnolo si esplora alla ricerca di gas, nelle regioni centrali quello che si cerca è proprio l’oro nero.

L’Abruzzo ha dato l’avvio alla stagione di investimenti nel campo minerario proprio quell’11 settembre 2001, che oltre ad aver segnato le sorti del mondo sembra aver delineato anche il futuro della cosiddetta regione verde d’Europa, la terra dei parchi.
L’intesa siglata con l’Eni prevede un programma di impianti e di trivellazioni a scopi petroliferi, da cui la scoperta del giacimento di Miglianico (Ch). Da questi giacimenti si stima di poter estrarre 8.200 barili/giorno con riserve valutate in circa 31 milioni di barili, che andrebbero ad aggiungersi ai 6mila barili/giorno, che si ottengono dal campo estrattivo al largo di Vasto (Ch).

Per operare una prima lavorazione Eni ha chiesto di costruire un centro oli ad Ortona ( al momento bloccato per mancato accordo in giunta regionale) dove attraverso processi di desolforazione si produrrà greggio e gas naturale idonei alla commercializzazione e che sarà collegato, per mezzo di un gasdotto, alla rete nazionale Snam e, per mezzo di un oleodotto, al deposito olio costiero. Sempre di proprietà Eni.

«L’industria del petrolio - si legge nel dossier di Legambiente, Alla ricerca del Texas in Italia (da cui sono tratte gran parte di queste informazioni) - complice una classe politica inadeguata e distratta, sta realizzando il suo progetto che, mai valutato nella sua complessità, è stato trattato alla stregua di banali concessioni edilizie».

Lo dimostra, secondo l’associazione ambientalista, l’approccio con cui sono state rilasciate le valutazioni di compatibilità ambientali, fatte singolarmente a distanza di tempo sul porto, sul deposito costiero, sui pozzi e sul centro oli, e che non hanno mai valutato appieno le ricadute complessive del progetto, sia dal punto di vista ambientale, che economico e sociale.

Proprio le forze produttive, agricole e turistiche, che costituiscono la spina dorsale dell’economia locale, stanno appoggiando infatti le opposizioni al progetto da parte degli ambientalisti, perché hanno intuito che il disegno di Eni sta mettendo una pesante ipoteca sull’attuale economia della regione fondata su produzioni di qualità, sulla tutela del paesaggio collinare della costa Teatina, nota come colline del Montepulciano, dove si realizza il 70% della produzione vitivinicola dell’Abruzzo.
Un territorio che dà lavoro ad oltre cinquemila aziende agricole, cui si aggiungono quelle legate al turismo balneare ed enogastronomico che ha fatto della qualità territoriale l’elemento portante della propria offerta.

«Al di là di ogni altra valutazione relativa ai danni prodotti alla salute umana e all’ambiente- si legge ancora nel dossier di Legambiente- puntare sul petrolio resta una scelta politicamente ed economicamente sbagliata; è l’aspetto costi benefici che non convince, in quanto la distruzione dell’attuale tessuto produttivo non sarà mai compensato né a livello di occupazione né a livello di risultati economici, dall’industria petrolifera».
Anche perché occorre sempre avere presente che per l’Italia, nel complesso delle estrazioni e coltivazioni possibili, stiamo parlando di 109 milioni di tonnellate di riserve di petrolio recuperabili a fronte di un consumo annuale che nel 2006 si era attestato sugli 85 milioni di tonnellate. Un “tesoretto” che non permetterebbe né una riduzione delle importazioni, né un abbassamento della bolletta energetica nazionale ma solo importanti profitti per le aziende petrolifere a fronte di una seria ipoteca sul futuro di gran parte del territorio italiano.

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