[23/05/2008] Comunicati

E se la fame non fosse un problema di carenza di cibo ma di sistema alimentare?

ROMA. Secondo il nuovo rapporto della Fao “Food Outlook” «i prezzi sostenuti delle derrate alimentari hanno colpito in particolare i settori più vulnerabili della popolazione di molti paesi, coloro che spendono una parte rilevante del proprio reddito per la spesa alimentare». Il rapporto prevede che nel 2008 il costo delle importazioni alimentari dei Paesi a basso reddito con deficit alimentare (Lifdc) arriverà a 169 miliardi di dollari, il 40% in più del 2007. Per la Fao si tratta di «uno sviluppo preoccupante», visto che fine del 2008 il loro costo complessivo annuale del cibo potrebbe essere quattro volte maggiore a quello del 2000.

Negli ultimi tempi i prezzi internazionali della maggior parte dei prodotti agricoli di base «hanno cominciato a calare, ma è improbabile che ritornino ai livelli bassi degli anni passati», se l’indice dei prezzi alimentari della Fao è stabile dal febbraio 2008, la media dei primi quattro mesi del 2008 rimane più alta del 53% rispetto ad un anno fa. «Il cibo non è più il prodotto economico di una volta – dice il vice direttore della Fao Hafez Ghanem - L’aumento dei prezzi alimentari è destinato ad esacerbare il già inaccettabile livello di mancanza di cibo con cui devono fare i conti 854 milioni di persone. C’è il rischio che il numero di coloro che soffrono la fame aumenti di milioni di unità».

Il cibo c’è, le previsioni di produzione di cereali sono favorevoli, ma la richiesta (e la speculazione) aumenta e bisogna ricostruire le scorte. Nel 2008 si dovrebbe raggiungere la produzione record cerealicola di 2.192 milioni di tonnellate, con un forte aumento del grano e un più 3,8% del riso. Il mistero è quindi perché i prezzi aumentano se l’offerta soddisferebbe la richiesta, o addirittura la supera? Una domanda alla quale tenteranno di rispondere nel summit mondiale che si terrà dal 3 al 5 giugno i Capi di stato e di governo che discuteranno alla Fao di cibo, cambiamento climatico, bioenergie e sicurezza alimentare.

Secondo quanto dice a Tierramerica Michel Pimbert (nella foto), direttore del programma agricoltura e biodiversità dell’International Institute for Environment and Development ed autore di un nuovo studio che propone di valorizzare le colture locali, «L’attuale crisi alimentare ha ravvivato il mito che il mondo non produce sufficiente cibo per tutta la sua popolazione. La crisi è un prodotto del sistema globale. Occorre ritornare indietro dalla globalizzazione ed evolvere verso la produzione locale, che permetta alla gente di controllare il proprio cibo, entrate, ed economia».

Pimbert illustra queste posizioni “glocal” nello studio "Towards Food Sovereignty", che include le testimonianze di agricoltori, indigeni e consumatori (http://www.iied.org/). Le tesi di Pimbert erano già in parte contenute in una ricerca pluriennale dell’Assessment of Agricultural Science and Technology’Iied pubblicata il 15 aprile che concludeva sconsolatamente che «proseguire con le pratiche agricole abituali conduce al disastro».

Quindi il problema (come ha già scritto greenreport), non sarebbe tanto quanto cibo si produce ma come e dove lo si produce e la disparità di redditi tra nord e sud del mondo. «Entità come la Fao e il Consultative Group on International Agricultural Research, reclamano più ricerca per elevare il rendimento dei raccolti ed ancora di più di questi ultimi – dice Pimbert a Tierramerica – Non si fa niente per l’accesso agli alimenti ed alla terra. E’ molto più facile parlare di questioni tecnologiche che del panorama completo. E’ il momento di guardare a quel che c’è di male nel sistema alimentare mondiale e fare in maniera che funzioni meglio, specialmente per le comunità povere e marginali».

Che qualcosa non vada lo dicono gli stessi dati della Fao, mentre Somalia, Etiopia ed altre decine di Paesi soffrono la fame i prezzi salgono ma aumenta anche la produzione di oli e semi oleosi, lo zucchero ha avuto una produzione record nel 2007/08, il mondo produce e mangia più carne, latte e formaggi sempre più cari, l’acquacoltura è cresciuta tanto da aver raggiunto la produzione della pesca tradizionale, la produzione di patate cresce a ritmi del 2 – 3% all’anno, soprattutto in Cina ed India.

Malthus quindi c’entra poco e Pimbert propone un modello alternativo (che somiglia al nostro “chilometro zero) che esiste già e che potrebbe essere l’esempio per rompere la catena dell’agroindustria: «Comincia nella famiglia e si espande al vicinato, al municipio, ed alla regione . Insieme alla produzione alimentare include la lavorazione, la distribuzione, accesso, consumo, riciclo e smaltimento dei residui. Varia molto da un luogo all’altro ed è la base del sostentamento, della cultura e del benessere di cento milioni di persone, nella maggioranza delle nazioni in via di sviluppo. E’ molto più democratico, offre più controllo ai cittadini. E’ ecologicamente più sostenibile e più adattabile alle condizioni mutevoli. Mantiene I guadagni all’interno della comunità e genera più entrate locali, potenzia la diversità culturale, riflettendo la storia e le circostanze di ogni famiglia. Dopotutto, il cibo è cultura».

Uno slow food ed una Terra Madre planetari basati sui poveri, ma che avrebbero non pochi ed agguerriti nemici: «Governi, corporazioni internazionali ed altre elites marginalizzano o minacciano direttamente quel che rimane di questi modelli e gli ecosistemi dai quali dipendono – dice Pimbert a Tierramerica – Trenta anni di politica neoliberista hanno devastato la produzione locale con il commercio sleale (dumping) di alimenti fortemente sussidiati dalle nazioni ricche verso quelle povere».

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