[16/06/2008] Aria

Il fallimento dei Bonn climate change talks

LIVORNO. Dopo i clamori di Bali, i Bonn climate change talks 2008 si sono conclusi nel silenzio e nel disinteresse totale, i grandi del mondo che preparano il G8 giapponese sembrano spaventati più dall’aumento del prezzo del petrolio che da quello che ci sta dietro e dal segnale per il futuro che abbiamo davanti. Ma soprattutto non sembravano trovare l’accordo non solo sulla strategia per uscire da questa situazione, ma neppure sull’interpretazione dei veri motivi che l’hanno scatenata.
Del resto come evidenzia giustamente sull’Unità di Oggi Paolo Leon, non esistono regole per controllare la speculazione sulle commodities: «mentre la Sec, come la Consob, interviene sospendendo i titoli per eccesso di rialzo o ribasso, nessuno interviene per moderare la speculazione sulle materie prime: eppure, dal punto di vista economico e sociale, le materie prime sono certamente più importanti dei titoli di credito». E questo perché il mercato delle materie prime è regolato dalla Commodity futures trade commission (Cftc), un organismo federale americano, ma non da una vera e propria autorità terza di regolazione, che quindi non ha i poteri della Sec o della Consob.

«Il problema non è interno agli Usa – rileva ancora Leon - e il resto del mondo dovrebbe chiedere che il mercato più importante, dal quale si riflettono i prezzi in tutto il mondo, sia sottoposto a qualche forma di trattato internazionale. In realtà, esiste l´Organizzazione Mondiale del Commercio, ma persa dietro l´ideologia della libera circolazione delle merci, non sembra abbia intuito quanto poco il prezzo rifletta domanda e offerta di merci, rispetto alla domanda di giochi speculativi».

Intanto la conferenza di Bonn dell’United Nations framework convention on climate change (Unfccc) ha discusso dal 2 al 13 giugno dell’elaborazione di un nuovo accordo sui cambiamenti climatici, ma i risultati sembrano nulli, uno stallo denunciato da molti partecipanti. Chiudendo il summit di Bonn, il segretario dell’Unfccc, Yvo de Boer, ha detto che «Il cammino che resta da percorrere per concludere un nuovo accordo è impressionante. Il mondo è davanti ad un compito tremendo per mettersi d’accordo su un nuovo trattato entro il 2009 per rallentare il cambiamento climatico».

Almeno su questo i 170 Paesi che si sono riuniti a Bonn sono concordi, così come tutti (o quasi) criticano i progressi minimi fatti fino ad oggi. Il problema è che non si riesce a capire come correre alla velocità richiesta dal global warming che avanza insieme alla crisi energetica ed alimentare. I Paesi in via di sviluppo hanno nuovamente accusato i Paesi ricchi di frenare nella messa in atto di nuove riduzioni delle loro emissioni di gas serra e di aver portato subito al fallimento le loro proposte (reiterate anche nelle riunioni preparatorie del G8) di condividere le nuove tecnologie con I Paesi poveri, per aiutarli ad adattarsi ai cambiamenti climatici.

La strada verso Copenaghen ed il post-Kyoto sembra davvero un terribile e accidentato percorso ad ostacoli. Ma De Boer vede il bicchiere mezzo pieno e dice che «dei progressi sono stati realizzati a Bonn, soprattutto perché le nazioni hanno acquisito una migliore comprensione di ciò che dovrà essere menzionato nel nuovo trattato che ha l’obiettivo di rallentare la desertificazione, il riscaldamento, le inondazioni, l’aumento del livello del mare e le tempeste potenti. E’ cruciale che la prossima tappa dei meeting produca dei testi negoziali concreti».
Il bicchiere mezzo vuoto lo vedono invece i Paesi emergenti e in via di sviluppo, per loro ha parlato a Bonn Chandrashekhar Dasgupta, della delegazione indiana, che ha denunciato il « silenzio assordante da parte della quasi totalità delle nazioni ricche a proposito della maniere di realizzare nuove riduzioni delle emissioni di gas serra».

«Il ritmo è lento e difficile. Un nuovo spirito di cooperazione è necessario» anche per Harald Dovland, un norvegese che preside un gruppo di studio delle riduzioni future dei 37 Paesi sviluppati che hanno aderito al Protocolo di Kyoto ed accettato di ridurre le loro emissioni del 5% entro il 2012, rispetto ai livelli del 1990.
Il mondo sembra bloccato, in attesa delle elezioni americane e dell’uscita di scena di Bush, sperando che Barack Obama o John McCain mantengano le loro promesse di cambiare registro e ridurre le emissioni Usa.
Eppure, Yvo de Boer ha detto che «non c’è alcun segno che dimostri che le nazioni ricche siano allarmate dai possibili costi del nuovo trattato. Le crisi finanziarie a corto termine e i prezzi alimentari non colpiscono questo processo in maniera negativa».
Anche a Bonn il rialzo del prezzo del greggio e la speculazione finanziaria sono stati elementi in più per sostenere la necessità di investire davvero nelle energie rinnovabili come l’eolico e il solare.

Per gli ambientalisti il fallimento di Bonn è dovuto all’atteggiamento di Usa, Canada e Australia che rallentano i negoziati, mentre hanno accolto bene le iniziative di Cina, le Brasile, Svizzera e Norvegia per accelerarli. Lo stallo di Bonn sembra il risultato di uno scontro di prospettive e strategie, ma soprattutto del non governo globale dell’economia e del tentativo degli Usa e dei suoi alleati, ma anche di un G8 sempre meno importante ed unito, di far lavorare “tranquillamente” gli spiriti animali del capitalismo al rattoppo degli sbreghi del mercato, alla ricucitura della crisi economica, poi si vedrà come mantenere (quando e se) le promesse di Kyoto e di Bali.

Secondo Bill Hare, di Greenpeace, «L´agenda non è mai stata così importante, i progressi non sono mai stati così lenti. C’è il rischio di un fallimento, a meno che le maggiori nazioni sviluppate la smettano di attuare tattiche non costruttive e di sbarramento».
De Boer cerca di tranquillizzare: «E’ un po’ prematuro dire che non raggiungeremo la linea d’arrivo, mentre non siamo che al primo chilometro della maratona».

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