[28/07/2008] Consumo

Insicurezza globale, debolezza degli Stati e assenza di governance

FIRENZE. Non passa settimana che anche sulle cronache locali non venga evocata “l’emergenza clandestini”, ovviamente extracomunitari oppure Rom se comunitari, ecc.; e addirittura essa rischia di diventare il fulcro delle primarie dei Democratici per le elezioni locali del 2009 anche in Toscana.
«Siamo all’inizio di una nuova era, caratterizzata da una grande insicurezza, da una crisi permanente e dall’assenza di ogni tipo di status quo…» diceva Sturmer nel 1993, ora sappiamo però con sicurezza che un’epoca è finita e per la prima volta in due secoli non c’è un organismo internazionale capace di orientarla, tanto che oggi la crisi degli Stati nazionali rende vulnerabili anche i paesi dell’ occidente.

Tra i motivi per cui gli Stati occidentali si sono indeboliti c’è anche l’incapacità di valutare la potenza dei conflitti e la possibilità di episodi di violenza inusitata come l’11 settembre 2001. Questa debolezza ha messo in luce, tra l’altro, ciò che sembra diventare la causa più importante della tensione internazionale del XXI° secolo, cioè il divario crescente tra le parti ricche e quelle povere del pianeta.

Le punte più aspre di xenofobia diffusa nei paesi ricchi si rivolgono contro gli stranieri del Terzo mondo e si chiudono le frontiere contro il flusso di poveri in cerca di lavoro, col risultato che il secolo XX° è finito in un disordine mondiale caotico e in assenza di un meccanismo per porvi fine o tenerlo sotto controllo.

La ragione di questa impotenza non sta solo nella profondità e complessità della crisi mondiale, ma anche nel fallimento dei programmi, vecchi e nuovi, per gestire o migliorare la condizione del genere umano, cioè la promessa di fornire soluzioni durature ai problemi di un mondo in crisi. E’ fallita l’utopia di una società e un’economia fondate sulla proprietà statale generalizzata dei mezzi di produzione e sulla pianificazione centrale totale, senza alcun ricorso al mercato per la determinazione di prezzi.

Ma anche l’utopia contraria è fallita: la “fede” in una economia nella quale le risorse siano ripartite interamente dal mercato che, senza alcun limite, in condizioni di competizione assoluta, dovrebbe produrre non solo il massimo di beni e servizi, ma anche il massimo di felicità e libertà.

La redistribuzione internazionale della produzione infatti immette nell’economia mondiale miliardi di abitanti del pianeta, accompagnati da un apparente irreversibile fossato tra paesi ricchi e paesi poveri, che senza una caduta, assai improbabile, del tasso di natalità del Terzo mondo, continuerà a crescere.

L’idea dell’economia neoclassica quindi, quella secondo cui il commercio internazionale illimitato avrebbe permesso ai Paesi più poveri di avvicinarsi a quelli più ricchi, ha cozzato contro l’esperienza e la realtà dei fatti.

Tra le vittime della crisi, non dobbiamo dimenticarlo, ci sono anche programmi e politiche pragmatiche che hanno portato a importanti risultati economici e sociali, come l’allungamento della vita, almeno in occidente, ma conseguenze ecologiche potenzialmente catastrofiche.

Del resto un’economia mondiale che si sviluppa attraverso la produzione di disuguaglianze crescenti, quasi inevitabilmente, genera grossi problemi. Tra questi un coacervo di emozioni e propaganda che cresce sulla crisi della politica: xenofobie e identità locali che ne hanno preso il posto. Ma esse non hanno maggiori probabilità di offrire soluzioni ai problemi del nuovo secolo di quante ne abbia avute il fascismo dinanzi alle crisi tra le due guerre mondiali, come sosteneva Hobsbawn già nel 1995.

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