[28/07/2008] Recensioni

La Recensione. L’Industria italiana di Magda Bianco

LIVORNO.Il concetto e la pratica di progresso economico moderno è unanimemente fatto risalire alla fine del diciottesimo secolo e all’inizio del processo di industrializzazione allora affermatosi in Inghilterra. L’Italia, paese agricolo, è arrivato in ritardo all’industrializzazione rispetto agli altri paesi europei come appunto Inghilterra, Germania e Francia, ma in un secolo si è trasformata in uno dei paesi più industrializzati. Un progresso, che comunque si è caratterizzato sostanzialmente, per l’idea (e che ancora si caratterizza) dell’aumento continuo della crescita economica con produzione sempre maggiore di merci e servizi con conseguente e crescente consumo di energia e materie prime ( e dunque crescente produzione di rifiuti di processo e di prodotto).

Ma a cominciare dall’ultimo decennio del secolo scorso il sistema ha mostrato segnali di difficoltà perché la crescita dell’economia si è ridotta, la produttività del lavoro sta rallentando, l’industria ha perso peso sui mercati internazionali e alcune imprese hanno sperimentato l’esperienza della crisi. Le risorse energetiche, le materie prime scarseggiano, lo stato dell’ambiente non è dei migliori, aumentano i rifiuti e i problemi connessi alla loro gestione.

Magda Bianco – autrice di “L’industria italiana” - illustra la struttura dell’industria italiana (che si caratterizza per alcune peculiarità ossia la dimensione media dell’impresa, la specializzazione produttiva, la struttura del controllo delle imprese), i suoi principali problemi e le sue prospettive per il futuro. Dopo aver fatto un breve excursus storico nell’evoluzione dell’economia italiana dagli inizi dell’industrializzazione, si concentra sullo stato dell’industria del Paese a partire dagli anni ’90. Ed è in questo periodo che il sistema si affaccia nel decennio con diverse peculiarità: il dualismo dimensionale della struttura produttiva, poche grandi imprese, molte piccole e piccolissime imprese, massiccia presenza del “pubblico” mentre nel privato prevalenza di famiglie o gruppi, una forte specializzazione dei settori tradizionali e perdita di competitività in quelli innovativi.

La grossa parte dell’industria in senso stretto (ossia quella che comprende le attività estrattive, quelle manifatturiere, quelle di produzione e distribuzione di energia elettrica, gas, vapore e acqua) infatti è costituita dalle attività manifatturiere che rappresenta l’88% del valore aggiunto e il 96% dell’occupazione. Negli ultimi due decenni però la quota del settore sul valore aggiunto totale dell’economia è scesa e non solo in Italia. E accanto al settore dell’industria in senso stretto c’è quello edilizio che in Italia rappresenta circa un sesto del valore aggiunto dell’industria e un quarto del valore degli occupanti. E nonostante queste caratteristiche, anche se negli ultimi tempi l’importanza del settore dell’industria si è ridotto il settore rimane ugualmente importante per l’economia del paese.

L’autrice espone poi le potenzialità e i possibili ostacoli che tali specificità italiane presentano per lo sviluppo della new economy; gli assetti proprietari e la struttura finanziaria delle imprese con riferimenti alle possibili ricadute della recente legislazione finanziaria e della nuova riforma del diritto societario e del legame fra mondo produttivo e sistema giuridico. Arrivando alla conclusione che le caratteristiche dell’industria italiana sono il risultato di un lungo processo storico che ha visto molteplici protagonisti: gli imprenditori, naturalmente, ma anche le politiche statali, il “capitale sociale”, le strutture finanziarie e anche il quadro normativo. E aggiungendo che “il programma delle politiche per le imprese dovrebbe essere in tutti i paesi frutto di un approccio sistemico”.

Dunque, se la prima rivoluzione industriale può essere identificata come l’epoca del cotone e del ferro, del vapore e delle ferrovie, dell’affermazione del “sistema fabbrica” e dell’imprenditoria; se la seconda rivoluzione industriale può essere identificata con l’epoca della elettricità e dell’acciaio, della chimica e dell’automobile, della produzione standardizzata su grande scala e del capitalismo; se la terza rivoluzione industriale, infine, è segnata dall’ondata di innovazioni emerse nel campo dell’elettronica, dell’informatica e delle tecnologie di comunicazione ma comunque sempre orientata alla massima crescita dei volumi prodotti; tutte e tre questi periodi hanno sempre alla base una costante: l’aumento dei prelievi di materia prima, l’utilizzo di energia e l’aumento di prodotti materiali da immettere sul mercato globale.

La capacità di produrre merci a buon mercato e spedirle nel mondo è in parte derivato dall’abbondanza di energia e di materia a poco prezzo, ma l’utilizzo indiscriminato di petrolio, gas, carbone e di materie prime ha inquinato il pianeta e pericolosamente riscaldato il clima. In un mondo condizionato dal carbonio la sopravvivenza dipende dalla capacità di produrre prodotti e servizi sfruttando l’energia in maniere molto più efficace e efficiente. L’idea di fabbricare utilizzando meno risorse è tutt’altro che nuova e rimane la base di una produzione più sostenibile. E il minor sfruttamento delle risorse fa guadagnare il tempo necessario per attutire i problemi del cambiamento climatico e per sviluppare metodi produttivi che vadano incontro ai bisogni dell’umanità come il benessere che in un paese ormai ricco ed evoluto non corrisponde più all’infinito aumento della ricchezza monetaria e dei consumi di materia e di energia. Anche se la “crescita” rimane una convinzione diffusa tanto che l´aumento del Pil è da sempre l´obiettivi fondamentale di tutti i Paesi.

In un periodo come quello odierno abbandonare da parte dei governi (compresa l’Italia con i recenti proccedimenti di Tremonti) la politica dell’ecoefficienza e soprattutto la riduzione dei consumi energetici da combustibile fossile (anche se il prezzo del petrolio dovesse calare) e in generale la politica sulla manutenzione degli edifici, sulle riqualificazione urbanistica, sulla gestione del territorio e i servizi comuni alla persona rappresenta l´opposto dellle politiche per l´innovazione e la modernità tanto sbandierate.

La sempre maggiore consapevolezza del valore delle risorse materiali per le economie e la loro incipiente scarsità potrbbero rappresentare una opportunità per indirizzare l’economia nazionale e globale verso la sostenibilità. Però i passi da fare verso questa direzione comprendono decisioni più trasparenti e condivise, investimenti nelle nuove tecnologie per la gestione delle risorse ( e non tagli alla ricerca scientifica come sta accadendo ) e un attento allineamento degli incentivi da parte dei governi (gli incentivi in generale dovrebbero convincere le imprese ad abbracciare nuovi sistemi produttivi). Innovazioni nella tecnologia, nella gestione e negli strumenti di mercato (tariffazioni e prezzo del servizio). Insomma, senza l´industria non c´è futuro ma....soprattutto non c´è futuro senza un´industria sostenibile: ambientalmente e socialmente.

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